migranti nave 675
L’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per la detenzione “illegittima” di tre migranti tunisini nel Centro di primo soccorso e accoglienza (CPSA) di Lampedusa e sulle “navi-prigione”, ovvero, navi civili da crociera che nel 2011 furono trasformate in Centri di Identificazione ed Espulsione (Cie) galleggianti, appena fuori Palermo. Il fatto risale a quattro anni fa e forse i più lo ricorderanno per la narrazione che ne fecero i media.

Si parlò di una Lampedusa “invasa” da giovani tunisini che misero l’isola “a ferro e fuoco”. In realtà, l’isola “fu riempita” ad hoc, come racconta bene Mauro Seminara nel documentario “2011 Lampedusa l’anno della Primavera Araba“. Gli arrivi aumentavano e i trasferimenti in altri luoghi d’Italia non venivano autorizzati dal ministero dell’Interno. Risultato: situazione insostenibile sia per i tunisini, che ormai avevano popolato la ormai nota “collina della vergogna”, sia per i lampedusani, stanchi di vedere la loro isola trasformata ciclicamente in un palcoscenico dove mandare in scena le propagande politiche. Ci furono scontri, anche molto violenti. Fino a quando il Governo, con l’uso della forza e le espulsioni indiscriminate, ripristinò l’ordine. L’allora presidente Berlusconi arrivò a Lampedusa, si lanciò in una delle sue “migliori” performance promettendo di comprare una villa e di creare campi da golf e la storia cadde nel dimenticatoio.

Ma cosa è successo veramente quattro anni fa? E perché l’Italia oggi è stata condannata? Nella primavera 2013, a più di due anni dall’inizio della rivoluzione, io e l’antropologo Gianluca Gatta siamo tornati in Tunisia e abbiamo raccolto la storia di Mohammed, un giovane tunisino che nel 2011, con la caduta del regime di Ben Ali, pensò di essere libero. Anche libero di viaggiare. Ma quando arrivò a Lampedusa si trovò in mezzo agli scontri tra isolani e tunisini. Fu rinchiuso nel CPSA, quindi trasferito nel CIE galleggiante e, infine, rimpatriato. Quello di Mohammed è il racconto di chi ha vissuto in prima persona gli abusi del nostro Paese. Quegli abusi per cui oggi, in parte, l’Italia è stata condannata dopo che tre – delle migliaia di tunisini – hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Questa è la sua storia.Mohamed guida il taxi. Il traffico di Tunisi prova a inghiottire lui e i suoi sogni. Ma Mohamed, giorno dopo giorno, resiste. Lui lo sa: il suo futuro è altrove. A ricordarglielo c’è quel fischietto di plastica rosso che ha staccato dal salvagente della nave italiana Grimaldi e che ora porta sempre in tasca.

Mohamed lavora come tassista a Tunisi per pagarsi il viaggio verso l’Europa. Fin da quando era bambino ha sempre sognato di “immigrare”. Chi lo ha fatto prima di lui è tornato e ha raccontato che al di là del mare c’è una terra dove tutti i giovani possono avere una vita migliore. Un lavoro, una casa, una famiglia: un futuro.

La prima volta che si è imbarcato c’era ancora Ben Ali al potere: con i pochi soldi in tasca e un bel gruppo di amici, era salito su un treno a Tunisi. Aveva attraversato il deserto in direzione della Libia. Oltrepassato il confine con la Libia, aveva finalmente visto adagiata sulla sabbia la piccola imbarcazione che lo avrebbe portato in Europa. In quel momento Mohamed si era sentito il protagonista di un’avventura. Haj Al Fayak, l’intermediario, si era fatto pagare solo due milioni e mezzo di dinari per trasportare più di sette persone. Ma Haj Al Fayak non era un tipo onesto. E, infatti, poco dopo aver preso il largo, ecco le autorità tunisine arrivare, arrestare i ragazzi e riportarli in caserma a Tunisi.La rivoluzione fa cadere Ben Ali. E, con lui, anche le frontiere. Mohamed decide di ritentare l’impresa. A Sfax è una notte buia, senza luna. Il gommone su cui Mohamed e circa altre cento persone sono stipate, una accanto all’altra, prende il largo. Il peso è eccessivo. L’acqua entra ed esce dai bordi di quel guscio in mezzo al mare. All’alba il motore si rompe e il gommone inizia a navigare alla deriva.  Il sole è alto. Attorno, soltanto il mare. “Ci siamo persi” pensa Mohamed.  Acqua e cibo sono finiti.

C’è chi piange, chi ripete “Siamo morti”. Mohamed non si rassegna. Raccoglie l’acqua che il gommone imbarca e la getta fuori. Quella rientra e lui la ributta fuori. All’improvviso, in lontananza, il rumore di un elicottero. È sempre più vicino. Ora è perpendicolare al gommone. Volteggia, si allontana. La notte torna e avvolge il gommone nell’oscurità. Mohamed è sfinito. Molti dei compagni di viaggio sembrano impazziti.

Di nuovo un rumore. Un potente fascio di luce investe il gommone e rende bianca la superficie del mare. “Ci hanno fatti salire a bordo delle motovedette italiane. Ero sicuro che ci stessero portando in Italia. Invece ci hanno portato a Lampedusa. Sulla banchina ci hanno messi in fila e hanno iniziato a insultarci. L’ho capito anche se non parlo l’italiano perché quella degli insulti è una lingua universale. Per farci capire come dovevamo sederci a terra, ci spingevano con un manganello. Eravamo terrorizzati. Ci hanno caricati su un camion e ci hanno portati al centro di accoglienza.

Lì ci hanno perquisiti per vedere se avevamo oggetti metallici. Poi, senza spiegazioni, ci hanno divisi: minori da una parte, adulti dall’altra. Io sono andato con gli adulti. In quell’attesa forzata di non si sa chi, cosa e perché, attraversavo le grandi camerate del centro. Non c’erano porte. Sul pavimento non c’erano veri letti ma solo lenzuola strappate e sporche. Ero sconvolto. Là dentro ho trascorso più di due mesi. Appena sono entrato mi hanno dato una bottiglia di shampoo e una saponetta, dicendomi: “Fattele bastare per tutto il tempo che stai qui”. Mi facevo la doccia con l’acqua fredda. Non era possibile avere neanche il rasoio per la barba. Ti lasciavano imbruttire.
Per vedere il medico dovevi veramente soffrire. Solo dopo tre giorni di sofferenza ti portavano in ospedale. Con noi c’erano malati e feriti. Ricordo un diabetico. La gente litigava. Tra di noi ci si poteva anche ammazzare ma nessuno interveniva fino a quando la situazione non diventava veramente violenta. Ci lasciavano rinchiusi lì, da soli: non entravano neanche per fare le pulizie. La spazzatura la ritiravano dopo settimane.

Era un inferno. Non ce la facevo più. Non ho mai mentito. Neanche quella volta: dall’inizio alla fine ho detto la verità sul mio nome, cognome, età. Ma, veramente, ero stanco: ho saltato il recinto e sono entrato nella sezione dei minori dove ho ritrovato i miei amici. Almeno c’erano letti e porte. Lì ci rimango tre o quattro settimane. Non riesco a ricordare bene, probabilmente ricordo solo le cose più brutte, come il viaggio in mare e la permanenza a Lampedusa. Non capivamo perché ci lasciavano chiusi lì dentro. Non sapevamo nulla, neanche cosa ci stessero dando da mangiare. Io mi ero gonfiato. La situazione era insostenibile. In quel centro c’era gente da sette mesi che non veniva né rilasciata né rimpatriata”.
Nel 2011 le autorità italiane tentano invano di rimpatriare i tunisini, ma la rivoluzione aveva deposto Ben Ali, e con lui, il regime del controllo dei confini previsto dagli accordi di cooperazione bilaterale nella “lotta alla immigrazione irregolare”. I tunisini rifiutano quella prolungata permanenza forzata e inizialmente, reclamano pacificamente il diritto alla restituzione dei loro documenti d’identità e la libertà di proseguire il viaggio in Italia o altri paesi europei. A Lampedusa aumentano gli arrivi via mare dal nord Africa.

Il CSPA è al collasso. La tensione è alta. “Scoppia un incendio. Arrivano i giornalisti per fotografarci. Ma la polizia glielo proibisce. ‘Niente giornalisti! Via!’ urlavano. Quelli della Croce Rossa si avvicinano. Gli diciamo che nel centro ci sono dei malati. Ma la polizia li allontana. Riusciamo a scappare dal centro”.  C’è chi scappa sulla montagna, chi invece, va in paese. Qualcuno ruba delle bombole del gas. L’obiettivo è spaventare, far la voce dura, per avere indietro i documenti. Tra i tunisini circola la voce che se non lasceranno l’isola entro ventiquattro ore, l’esercito li ucciderà. La situazione sfugge di mano. Le forze dell’ordine italiane intervengono. “Ricordo la gente che scappava. I lacrimogeni. Ricordo chi, forse pensando di sfuggire alle cariche, o forse solo in preda al panico, scavalcava i muretti e si lanciava nel vuoto. Io ero rimasto intrappolato in un cortile insieme a tanti altri tunisini. Eravamo circondati. Siamo rimasti lì per più di 24 ore. Senza acqua. Dopodiché ci hanno portati a gruppi di 50 verso l’aeroporto. Ci hanno fatto salire su aerei da guerra. Era la prima volta che salivo su un aereo da guerra. Siamo atterrati a Palermo e siamo stati subito trasferiti dentro una nave, la nave Grimaldi. Sulla nave c’erano anche i feriti degli scontri”.

La nave Grimaldi rimarrà fuori dal porto di Palermo per diversi giorni e si trasformerà in un vero e proprio “Cie galleggiante”. Mohamed e i suoi compagni non riescono a chiudere occhio. Iniziano uno sciopero della fame in segno di protesta per il trattamento ricevuto. Dopo qualche giorno, a gruppi di cinquanta, vengono trasferiti all’aeroporto e rimpatriati.
“Quando sono tornato in Tunisia tutti parlavano dell’incendio al centro di Lampedusa. Si diceva che erano stati dei terroristi. Ma non era vero, eravamo tutta gente normale che voleva vivere, lavorare. Se ci lamentavamo era perché non potevamo uscire. Qualche mese fa ho deciso di chiedere un visto regolare. Sono andato all’ambasciata francese ma mi hanno negato il visto. Ma se non vogliono che mi imbarchi illegalmente, perché non mi danno un visto? Se i francesi o gli italiani possono venire in Tunisia, perché io non posso andare in Francia o in Italia? Non m’importa se mi chiamano illegale: io riprenderò la barca e tornerò in Europa”.

Questo paragrafo è tratto dal saggio “Tra aspirazioni e costrizioni: luoghi, narrazioni, memorie delle migrazioni contemporanee nel Mediterraneo” di Valeria Brigida e Gianluca Gatta pubblicato in “Le Sfide del Multiculturalismo. Tra teorie e prassi”, Rubettino Editore, 2015 

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