lavoro

Chapeau ad Antonio Calabrò. E al suo tempismo: ha smesso di fare il giornalista nel 2006. Un attimo prima della Grande Crisi, prima che l’editoria si facesse agonizzante. Ed è diventato uomo d’impresa. Consigliere delegato della Fondazione Pirelli, responsabile del Gruppo Cultura di Confindustria, membro della presidenza di Assolombarda, siede in vari board, insegna alla Bocconi e alla Cattolica di Milano e fa un mucchio di altre cose. Ma soprattutto è un siciliano puro.
Lo ritrovo, abbronzato e rilassato, camicia bianca di lino portata con nonchalance fuori dai pantaloni. Siamo all’hotel Signum, sulla terrazza spalancata sul mare di Salina. Qui è di casa e ha appena presentato a Palazzo Marchetti con l’ex ministro Franco Profumo e l’ex ad della Borsa Massimo Capuano il suo ultimo libro “La morale del tornio”. Sottotitolo: Cultura d’impresa per lo sviluppo” (Università Bocconi editore). E mette subito le mani avanti: “Non è un manuale per imprenditori e manager, ma un libro di lettura. Un esercizio, perché no?, di divagazioni”. Che lui fa da giocoliere della parola. E ci mette dentro tanta roba: etica, nuove tecnologie, capitalismo familiare, reindustrializzazione, trust& sharing, la vecchiaia (la generazione del troppo giovani per essere vecchi). Argomenti tosti trattati con leggerezza di scrittura. Si legge d’un fiato.

Direttore facciamo a domanda risponde? Ha detto che bisogna creare lavoro in quella forbice tra flessibilità e precarietà, ma come? Come si produce ricchezza?

Mettendo le imprese in condizione di nascere, crescere, investire su innovazione e produttività, di essere competitive rispetto ai concorrenti stranieri. E di fare meglio il loro lavoro: “Produrre cose belle che piacciono al mondo”, come diceva un grande storico dell’economia, Carlo Maria Cipolla. Con un occhio di riguardo per le start up, la via principale per giovani intraprendenti che vogliono fare impresa: sostegno al capitale di rischio e infrastrutture per la ricerca e lo sviluppo.

Quali caratteristiche e quali studi un giovane deve sviluppare per avere successo nel mondo del business?
Nel mio libro si parla molto di “cultura politecnica”, una sintesi tra saperi umanistici e competenze scientifiche. Servono “ingegneri filosofi” in grado di navigare nel mare della complessità e dare risposte nuove, originali a un ambiente del business che, dopo la Grande Crisi, deve ripensare radicalmente i paradigmi di produzione e consumo: sostenibilità ambientale e sociale e “green economy” non sono slogan, ma ragioni profonde d’uno sviluppo più equilibrato, d’una “economia giusta”.
Ha detto che il concetto d’impresa piramidale (alla base tante piccole imprese, al vertice i grandi gruppi) è superato. Oggi ci sono le multinazionali, agglomerati sempre più grandi sotto un unico ombrello.

La figura geometrica è quella del trapezio. Infatti, la forza dell’Italia, secondo paese manifatturiero d’Europa dopo la Germania, sono le 4600 imprese medie e medio-grandi, il “quarto capitalismo” delle cosiddette “multinazionali tascabili” e le filiere produttive di piccole imprese loro collegate. Industrie “medium tech”, innovative, eccellenti nei settori delle cosiddette “4A” e cioè automazione meccanica, chimica e gomma-plastica (e automotive), arredamento, abbigliamento e bellezza e agro-alimentare: dipendono in gran parte da loro i 128 miliardi di surplus manifatturiero che rendono forte la nostra bilancia commerciale. Sono imprese capaci di esportare e investire all’estero. Il problema irrisolto, per l’economia italiana, è l’immobilismo del mercato interno.

Visto che siamo a Salina, isola che ancora difende l’artigianalità di antichi mestieri  ( anche se si lamentano che la banda larga funzionicchia a singhiozzi. E meno male, rimanere un po’ sconnessi è salutare), lei ha parlato di “artigiani high tech”…
Già. Sapienza manifatturiera d’antiche origini, ben radicata nelle culture dei territori (se ne occupa benissimo Symbola, in stretti rapporti di collaborazione con Confindustria e le università) e innovazione da “digital manifacturing”, con le “stampanti 3D”. E’ la nostra via del futuro: memoria e high tech. Una sintesi in cui noi italiani possiamo essere fortissimi.

L’infotech (information technology) sta rivoluzionando il mercato del lavoro in modo sempre più pervasivo, quali settori saranno più influenzati nei prossimi anni?
Il mondo cambia sotto i nostri occhi. E l’innovazione non è solo “information & communication technology” ma uno sguardo nuovo sul mondo, che riguarda processi produttivi e prodotti, materiali, relazioni industriali, linguaggi della comunicazione e del marketing, “governance” delle imprese, ricerca. E questo investe tutto, dall’economia ai rapporti sociali.
Lei crede al “Fattore D, l’economia salvata dalle donne”?

Ma certo. Perché sono loro ad avere la maggior propensione all’innovazione, ai cambiamenti: un’ “intelligenza del cuore” che non è semplice produttivismo, ma ricchezza di relazioni e capacità di pensare le trasformazioni in modo più umano, sostenibile, creativo. Si può fare ricchezza, in un’economia “gentile”, accogliente, stimolante, inclusiva.

Eppure in materia di trasparenza siamo gli ultimi della classe. Abbiamo il primato della peggiore posizione d’Europa insieme a Romania, Bulgaria e  Grecia. Siamo corrotti e corruttibili. Che fare?
Lotta alla corruzione e alla mafia, impegno per una giustizia efficace ed efficiente, pubblica amministrazione trasparente sono valori che interessano moltissimo le imprese, alla ricerca di migliori ragioni di competitività di tutto il sistema Paese. E’ un impegno ribadito da Confindustria e Assolombarda, su cui continuare a insistere.

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