fabbrica lavoro pp 990

Le rivelazioni del sindacalista veneto della Cisl Fausto Scandola sui super stipendi, ricevuti da alcuni dirigenti sindacali nazionali superiori a quelli di Barack Obama o di Sergio Mattarella, pongono un problema non solo morale e di “cattiva gestione” delle risorse, risorse che derivano dalla libera adesione al sindacato da parte dei lavoratori e dei pensionati con il pagamento di una tessera. “I nostri rappresentanti e dirigenti ai massimi livelli nazionali della Cisl  –  scrive Scandola nella sua lettera alla Cisl – si possono ancora considerare rappresentanti sindacali dei soci finanziatori, lavoratori dipendenti e pensionati? I loro comportamenti, lo svolgere dei loro ruoli, come gestiscono il potere, si possono ancora considerare esempio e guida della nostra associazione che punta a curare gli interessi dei lavoratori?”. C’è, in queste parole, un evidente problema morale nel rapporto tra uno stipendio vicino ai 300 mila euro l’anno e quello di un facchino iscritto al sindacato di 20 mila euro annui. Ormai alcune sigle sindacali di categoria o territoriali sono delle industrie (vale a dire che hanno più ricavi di molte imprese) organizzate come dei comitati per il banco di beneficienza. Il Governo intervenga imponendo delle regole sul loro funzionamento e sulla trasparenza. Ormai ne è passata di acqua dai tempi dei periodi consociativi.

In previsione di questo si metta mano alla trasparenza. Si pubblichino tutti gli stipendi e si mettano online bilanci dettagliati di tutte le organizzazioni sindacali, lo hanno già fatto. Si dovrebbero pubblicare i vari rimborsi spese e benefit (alloggio, vitto, trasporti, ecc. ecc.) di cui godono molti dirigenti, a differenza della stragrande maggioranza dei lavoratori, e questo si può fare subito. C’è da far presente, ad esempio, che il presidente del patronato INAS, Antonino Sorgi, con entrate complessive attorno oltre i 250mila euro annui, tra pensione ed indennità varie, non si preoccupa minimamente del fatto che operatori dello stesso patronato, con stipendi attorno ai 1.500 euro netti al mese, non vedano un rinnovo contrattuale da 5 anni. Inoltre, l’utilizzo delle risorse sindacali andrebbero orientate per la tutela dei lavoratori di categorie e settori esposti alla concorrenza.

In modo eclatante emerge, da questa triste storia, la deriva corporativa dell’ex sindacato confederale, un problema questo non solo della Cisl. Da anni infatti si sono ammainate  le politiche “confederali” per rincorrere il facile consenso degli interessi particolari e degli egoismi corporativi. Ci si è messi al livello dei sindacati autonomi, che sono proliferati, per combattere la loro concorrenza, ma invano. Ciò non giustifica l’approccio sempre più corporativo delle politiche sindacali prive di respiro politico, contrattuale e di prospettiva. Irrisi da Matteo Renzi che banalizza la guerra tra generazioni tra chi ha un posto di lavoro e chi è precario, tra chi ha una pensione e chi è disoccupato, si è determinato un grande divario sociale tra i lavoratori dipendenti e tra i lavoratori dipendenti e quelli autonomi che ha visto il sindacato avere il ruolo di spettatore. Divari sociali generati dalla crisi e dall’affermarsi di una società come quella italiana priva di futuro. La debolezza delle politiche sindacali di questi anni e la perdita di consensi, fuori dal suo mondo, è stata del tutto evidente. Non poteva essere altrimenti, visto che l’attenzione del gruppo dirigente sindacale si è  rivolta principalmente verso i grandi gruppi industriali sempre più in declino, verso le aziende di servizi (utility pubbliche o private) garantite da rendite o da posizioni protette, monopolistiche e dal ripiano dei disavanzi con i contributi pubblici.

Nonostante i riflettori sui disservizi di Alitalia, FS e Atac si sono via via spostate le attenzioni verso la gestione politica (dove le carriere degli stessi sindacalisti si facevano più facili)  più che verso l’efficienza aziendale di un largo numero di imprese che producono servizi. Nel grande settore dei servizi pubblici (dove nel tran tran quotidiano vengono spennati gli utenti) o in quelli con un alto tasso burocratico-amministrativo, dove brilla l’assenza regolatoria dello Stato (es. Enel, ENAV, Autostrade, Banche, Assicurazioni, Porti, settori della Pubblica Amministrazione etc) si è consumata la deriva sindacale. La “tutela” dei lavoratori indifferenziata ha premiato alcuni settori, spesso i meno efficienti, grazie alla condivisione di scelte politiche (clientelari) ad alto tasso di iniquità sociale, a partire dall’attuale struttura previdenziale e sociale. Per non parlare di strutture contrattuali privilegiate e di contratti integrativi fintamente rapportati alla crescita della produttività ma in realtà rapportati alla crescita dei contributi pubblici e quindi solo generatori di debito più che di efficienza e qualità dei servizi.

Si è preferito assecondare le grandi opere civili, anziché chiedere lo sviluppo di nuove tecnologie che presentano ricadute industriali assai più rilevanti. Insomma il sindacato, proprio per il ruolo che svolge, aveva e ha di fronte l’esatta situazione dei punti di crisi del sistema Italia. Ha preferito, al contrario, tollerare o non vedere (salvo qualche protesta di rito) l’incremento delle spese clientelari e improduttive. Un esempio? L’accondiscendenza alle richieste di cassa Integrazione anche di fronte ad aziende decotte, l’assenza di una lotta per superare questo strumento di falsa protezione sociale con altri strumenti più mirati. L’occupazione è stata (ed è) un alibi gigantesco che ha giustificato scelte vecchie, costose e prive di prospettive. Così facendo l’occupazione è comunque crollata. Una falsa solidarietà ha sostituito quella vera degli anni ’80, quando si parlava di orario di lavoro con una visione strategica. Oggi siamo il Paese con meno occupazione e più straordinari d’Europa. Con più disoccupati ed una media di 1.800 ore di lavoro annue contro le 1.500 di Francia, Germania ed Austria. Nonostante la  bassa crescita di tutta Europa, altri Paesi riescono a difendere meglio i livelli occupazionali perché si è assunto questo obiettivo come prioritario con politiche sindacali e sociali adatte ad anni di bassa crescita. Alcuni esempi: si va dalle aziende in Cassa Integrazione che fanno gli straordinari, all’atteggiamento giustificatorio (bassi salari) del lavoro nero o del doppio lavoro. Anche sul tema, trascuratissimo, dell’efficienza energetica per ridurre i costi di gestione, del miglioramento dei processi produttivi per migliorare l’ambiente, sindacati e aziende sono lontane anni luce dalle politiche dei Governi del nord Europa. Per anni ambiente ed economia sono stati considerati antitetici, cosi come si sono opposte sostenibilità ambientale e sviluppo. Privo di strategie innovative, condizionato dalle categorie più forti, garantite e meglio pagate, accerchiato dai sindacati autonomi, il sindacato italiano è destinato alla irrilevanza. Questa è la maggiore lezione che sta dietro la recente denuncia del sindacalista veneto.

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