Neppure il celebre brocardo latino “mater sempre certa est, pater numquam” sarebbe servito per mascherare il trabocchetto ideato da un imprenditore genovese per sfuggire ai propri doveri di padre ed evitare di pagare ai propri figli, disconoscendone la paternità, gli assegni di mantenimento fissati per legge, a seguito della avvenuta separazione dalla moglie. Nulla di illegale, a termini di legge. Se non fosse che all’esame del Dna, previsto per accertare senza margini di dubbio, l’effettiva paternità, anziché presentarsi di persona – come è ovvio e indispensabile, per motivi evidenti – l’interessato ha inviato un sosia, anzi un sostituto. Un amico, oltretutto carabiniere, che reciti la parte del padre legale dei bambini, consegnando al laboratorio il proprio Dna. Dal quale risulterebbe senza tema di smentita che non è lui il genitore dei propri figli. Geniale. Ma solo sulla carta. Perché alla prova dei fatti la trovata è naufragata miseramente. E i due protagonisti maschili si ritrovano sul groppone una denuncia penale per frode processuale e sostituzione di persona.

La storia, alquanto bizzarra, racconta di una coppia “scoppiata”, ovvero di un matrimonio andato a rotoli. A seguito della separazione giudiziale, presso il tribunale dei Minori viene intrapreso un procedimento per l’affidamento esclusivo dei bambini alla madre. Ne consegue che il padre dovrebbe corrisponderle un assegno mensile a titolo di mantenimento dei minori. A questo punto il marito-padre effettua una mossa a sorpresa. Intraprende una azione di disconoscimento della paternità. La legge lo prevede. E’ il cosiddetto diritto alla verità. Se un genitore dubita di essere davvero il padre biologico dei propri figli – ha stabilito la giurisprudenza- ha diritto di sapere la verità scientifica. Ricorrendo appunto al test del Dna, che non mente mai.

A seguito dell’esposto presentato dal legale della moglie, il giudice Giuliana Tondina dispone l’effettuazione del test del Dna presso l’Istituto di Medicina Legale dell’Ospedale genovese di San Martino. Lo sviluppo della vicenda ricorda una pochade di Feydeau. Il presunto padre che padre dice di non essere si presenta al medico legale incaricato di effettuare l’esame. E’ una donna. Convenevoli e richiesta di un documento di identità. L’uomo appare confuso, in imbarazzo. Si fruga nelle tasche, arrossisce. “L’Ho dimenticato a casa”, farfuglia. “Vado a prenderlo”. Forse guidata dall’istinto femminile, insospettita da quella goffa commedia, la dottoressa senza parere riesce a scattargli una foto col cellulare. La semplice precauzione basta per smascherare il comportamento truffaldino. Mostrata la foto alla moglie dell’imprenditore, l’uomo raffigurato viene riconosciuto come un amico del marito, un carabiniere che presta servizio in Valle d’Aosta. Scatta la denuncia penale. Gli atti vengono inviati alla procura delle Repubblica di Genova. Il pm Francesco Cardona Albini apre un fascicolo ipotizzando i reati di falso processuale e sostituzione di persona. Il marito-padre ora ha pensieri più seri del tarlo di dover pagare gli assegni di mantenimento ai figli minori. Che saranno i suoi? Oppure no? Ah saperlo…

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