La concorrenza è, come noto, il modello di mercato che garantisce meglio l’ampiezza dell’offerta e il continuo miglioramento dei prodotti. Ciò comporta maggiori vantaggi per i consumatori. Invece il monopolio e l’oligopolio portano all’uniformità e alla piattezza dell’offerta, all’invecchiamento dei prodotti e un prezzo superiore, causando svantaggi al consumatore finale.

Facciamo l’ipotesi che il 60% del pubblico televisivo preferisca l’intrattenimento-evasione, il 20% la fiction, i film e i documentari, il 10% l’informazione in generale. Se vi fossero due grandi reti generaliste, esse preferirebbero offrire in prevalenza l’intrattenimento (conseguendo così il 30% di share in media del pubblico amante dell’intrattenimento). Se vi fossero tre reti, preferirebbero ancora offrire in prevalenza l’intrattenimento (20% in media per ciascuna rete). Con quattro reti, anche il genere fiction entrerebbe nell’offerta (in media le quattro reti possono raggiungere il 20%). Solo se vi fossero più di sette reti, anche il genere informazione incomincerebbe a essere programmato.

Come si vede, le preferenze del pubblico minoritario hanno difficoltà a essere soddisfatte: nella Tv, come in qualsiasi altro mezzo di comunicazione di massa, vincono sempre la maggioranza e i temi a essa graditi!

Il pluralismo dei generi è quindi garantito solo dalla concorrenza e dalla pluralità degli operatori. Per assurdo, un monopolista potrebbe anch’egli assicurare la pluralità dei generi, ma non l’aggiornamento dei programmi poiché mancherebbe il confronto con altri concorrenti.

Quanto detto sui generi, può essere traslato sui contenuti, sulle tendenze politiche-culturali. Anche in questo caso solo la pluralità di operatori permetterebbe che tutte le idee politiche-culturali siano rappresentate sullo schermo.

Il mercato Tv tende invece a limitare la concorrenza e favorire la formazione di oligopoli. Nell’esempio di sopra è sufficiente che un operatore consegua ascolti superiori alla media, per sconvolgere l’equilibrio. Quando un’impresa Tv riesce, per esempio, a investire sui programmi più degli altri (grazie magari alle coperture politiche e alle capacità di fare televisione) raggiunge ascolti superiori tali da marginalizzare le altre reti. Le reti minori continueranno a perdere quote, avendo meno risorse da investire nei programmi, al contrario le reti maggiori tenderanno a ingrandirsi, potendo contare su risorse pubblicitarie aggiuntive. In televisione, chi è grande tende a crescere di più, chi è piccolo si contrae.

Siccome in questo settore transitano le libertà di manifestazione del pensiero, in tutti i paesi civili si fa ben attenzione che la concorrenza e il pluralismo editoriale siano garantiti: senza la concorrenza non c’è il pluralismo e viceversa.

Il nostro sistema televisivo è, come noto, molto concentrato, nonostante il digitale terrestre abbia ampliato le frequenze e le reti televisive: nella Tv free c’è il duopolio Rai e Mediaset, nella pay il duopolio Sky e Mediaset.

Una situazione che sembra non interessare molti. Le autorità pubbliche, Antitrust e Agcom, dimostrano una limitata indipendenza (i vertici sono di nomina dei partiti) e così il tema dell’antitrust è passato nel dimenticatoio (seppur di recente l’Antitrust abbia bloccato la “strana” Opa di EiTowers su RaiWay).

È corretto, tanto per fare degli esempi, che non siano disciplinati gli incroci fra la Tv-pay e la Tv-free, che non si sia limitato il numero di reti generaliste che ciascun operatore può avere, che la gestione dei diritti del calcio siano stati assegnati a una sola società, che non si provveda a ripristinare il divieto di incrocio fra stampa e Tv (che cadrà a fine anno)?

L’antitrust colpisce per definizione i “super-potenti”, limitando, per il solo sistema delle comunicazioni, le posizioni dominanti prima ancora degli eventuali abusi che tali posizioni possano causare. L’antitrust è una questione di politica industriale ma è innanzitutto un fenomeno culturale: la sua attuazione richiede una democrazia piena, governi coraggiosi, Autorità realmente autonome, che in Italia, dove il conflitto d’interessi non è stato disciplinato, ancora mancano.

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