Come uomo del Sud sento forte, in questi giorni, la tentazione di riandare alle radici dell’unità d’ Italia. Ma non mi piace e non sarei capace di riscrivere la storia. Nemmeno mi piace piangere sul latte ormai versato. Quello che è stato è stato, nel bene e nel male. Di certo al nostro Meridione, in questo secolo e mezzo che lo vede unito al resto della Penisola in una unica Italia, non sono state date le stesse opportunità di sviluppo che sono state concesse alle regioni del Nord. Non è un caso se oggi ritroviamo a dover registrare – ancora una volta – un malessere economico che ci mette sullo stesso piano della Grecia. Come mai?

In un Paese normale questa doppia andatura avrebbe dovuto mettere in guardia fin dall’inizio la politica nazionale e i governi centrali. Certo, da queste parti, di denaro ne è passato in questi decenni. Ma non solo non è servito a riportare il territorio a un tenore di vita accettabile, ma – non sto di certo svelando un segreto – è servito tante volte a rimpinguare le casse della malavita, soprattutto quella che faceva affari con pezzi dello Stato corrotti o collusi. Eterogenesi dei fini. Il denaro sprecato, senza progetti seri, studiati a tavolino, sul territorio, con i diretti interessati, fa spavento.

Basti per tutti l’esempio del ponte – mai realizzato – sullo stretto di Messina. Quanto denaro è stato letteralmente gettato via per la costruzione di autostrade che non finiscono mai, ospedali rimasti incompiuti, cavalcavia che crollano dopo un mese dall’ inaugurazione. Di chi la colpa? Della gente del sud o di chi ha speculato sulla sua pelle? Chi era ed è pagato per sorvegliare? Dove stava e sta lo Stato centrale mentre tutto questo accadeva e ancora accade? Chi ha permesso che si potesse arrivare ad avere una sola Italia sulla carta e due “Italie” nei fatti? Chi ha fatto finta di non vedere che, uguali nei doveri, gli italiani non lo erano e non lo sono nei diritti?

Il rapporto Svimez sull’andamento dell’economia meridionale non ci ha sorpreso per niente. Questi dati li viviamo sulla nostra pelle. Da anni i vescovi delle regioni meridionali vanno denunciando lo stato di abbandono in cui è stato relegato il Sud. Non è un segreto per nessuno, nemmeno per i nemici dichiarati della Chiesa, che le parrocchie sono diventate, negli ultimi anni, dei veri e propri dispensari dove la gente viene a chiedere la carità di un pezzo di pane. Da anni andiamo denunciando che tante famiglie che vivevano in uno stato di povertà dignitosa sono sprofondate nella miseria nera. I nodi arrivano sempre al pettine. E fanno male.

La lotta alla mafia, alla camorra, alla ‘ndrangheta è destinata a fallire miseramente se non c’è la volontà di togliere ai criminali la possibilità di dare lavoro e sostentamento a chi muore di fame. Non è un segreto per nessuno che i criminali occupano tutti gli spazi lasciati liberi da uno Stato assente o latitante. È finito il tempo di accusare di omertà o collusione chi, dopo aver cercato invano, per mesi e anni di vivere onestamente, si ritrova a fare scelte scellerate per dar da mangiare ai figli. I figli. Quali figli? Quelli che hanno avuto la fortuna di nascere. Perché, per chi ancora non ha visto quanto bello è il sole, è molto probabile che finirà risucchiato da un tubo di gomma in ospedale. Tanta è la paura di non poterli sfamare. Li chiamano diritti. Quali diritti? Al diritto di nascere, che tanto bene farebbe a tutti, si bada poco, troppo poco. Su quello di abortire le parole si sprecano. Quanto siamo strani. Abbiamo paura degli immigrati. Non vogliamo gli stranieri. Intanto non mettiamo al mondo i figli. Eppure tanti nostri vecchi sono affidati alle cure di chi, più povero di noi, viene a cercare fortuna dalle nostre parti. L’aborto dei poveri: com’ è diverso da quello dei ricchi.

C’è poco da fare: il Vangelo ha sempre ragione. Ha ragione quando ci chiama a vivere da fratelli, quando ci chiede di essere generosi. Quando ci comanda di non seminare odio, ma di amare tutti, anche chi ha la pelle di un altro colore. Anche – soprattutto? – chi non è ancora venuto al mondo, ma già vive nel grembo della mamma. Ha ragione quando ci ricorda che dai frutti si giudica l’albero. E i frutti, oggi, 154 dopo l’Unità d’Italia, sono terribilmente deprimenti.

Che fare? Bisogna correre ai ripari, non c’è dubbio. Ma in che modo? Intanto chi ha chiesto e ottenuto la fiducia degli elettori deve farsi modello di un vivere civile. Deve avere il coraggio di rinunciare una volta per tutte ai privilegi della casta che tanto male fanno agli italiani. Occorre poi avere il coraggio e la volontà di concretizzare una politica di sviluppo che sia omogenea per tutti gli italiani. È insopportabile questa Italia a due dimensioni. Una nazione a due marce. I partiti debbono trovare il coraggio e la dignità di essere implacabili con chi ha deturpato e ancora deturpa il volto della politica, di chi spegne la speranza nel cuore dei giovani, di chi negli anni ha pensato solo ad arricchire se stesso e la sua famiglia. Non si può chiedere agli italiani del sud di fare il proprio dovere se poi gli si nega i propri diritti. Il presidente Mattarella ha detto che il diritto al lavoro è inalienabile. La mancanza di lavoro non è un problema tra gli altri, ma il vero problema. È strano che il Parlamento si riunisce anche di notte e nei mesi estivi per approvare qualcosa che sta a cuore a qualcuno, ma sul diritto dei diritti, quello al lavoro, abbia la bocca socchiusa e la parola inceppata.

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