Costretto a casa da un piccolo infortunio e da questo luglio infuocato mi sono visto tutte le tappe del Tour trasmesse da Rai sport e Rai3, dalla partenza in Olanda al pavé del nord e poi Bretagna, Pirenei, Midi, Alpi, ricavandone alcuni commenti e qualche interrogativo da sottoporre alla vostra attenzione. Non riguardano la corsa già ampiamente, splendidamente raccontata su queste pagine, ma la sua immagine televisiva.

I primi commenti riguardano il lavoro della Rai che, per una volta, definire buono è poco. Eccellente è forse l’aggettivo giusto. Il format con tre punti di vista sulla tappa funziona benissimo. Ci sono due cronisti – Pancani e Martinello – che illustrano la corsa con competenza e puntualità, senza strafare, senza perdersi in chiacchiere, con qualche notazione spiritosa. A loro si alternano due commentatori che in video approfondiscono alcuni aspetti tecnici e non solo: sono un ex ciclista (prima Lelli, poi Garzelli) e una giornalista, Alessandra De Stefano che, oltre a conoscere tre lingue straniere, ci propone ogni giorno una straordinaria digressione su luoghi, figure, monumenti che il percorso del Tour sfiora.
Il tutto è avvolto e pilotato da uno studio milanese dove agiscono con discrezione e puntualità un giornalista molto esperto e gran signore, Beppe Conti, un ospite di giornata, di solito un ex ciclista (Moser, Saronni, Gimondi, Cassani) e un conduttore in organico alla Rai.

Sorpresa: tutti quelli che si sono avvicendati in questo ruolo, anche senza mostrare il glamour che caratterizza i giornalisti sportivi di Sky, se la sono cavata egregiamente, interpretando la parte con correttezza ma senza risultare anonimi, molto meglio dei loro colleghi a cui vengono affidati eventi più seguiti come le partite di calcio della nazionale. Poi ci sono le immagini, che sono frutto della regia francese. Bellissime come sempre, ma come sempre motivo di qualche polemica. Personalmente avrei qualche perplessità sulla tendenza a dividere lo schermo in due, a volte tre parti, mentre non condivido l’accanimento dei telecronisti italiani nel sottolineare l’errore in cui la regia francese è incorsa nella tappa di Gap, quando si è persa la caduta di Contador per seguire il tentativo di fuga, peraltro fallito, di un corridore francese.
Ma questo, si sa, è un topos irrinunciabile del Tour: i francesi sono esasperatamente nazionalisti e noi godiamo a vedere come “ancor s’incazzano che le palle ancor gli girano” quando perdono, come dice il poeta.

Ma  tutto ciò ora, a differenza dei tempi evocati da Paolo Conte, per fortuna, è solo un gioco.

Veniamo invece agli interrogativi che sono più importanti. Sono i soliti interrogativi che ci assalgono ogni estate. Che cos’ha questo Tour, terza manifestazione sportiva nell’universo dello show business (inferiore solo a Mondiali di calcio e Olimpiadi) che noi non abbiamo? Non certo la gara che quest’anno è stata più avvincente, equilibrata e tesa sulle strade del Giro che non nel corso di un Tour dominato da un atleta e da una squadra (a meno che l’Alpe d’Huez domani faccia sfracelli e io una figuraccia).

Non certo la copertura televisiva che usa la stesso format con gli stessi cronisti e riprese che non sono inferiori a quelle dei francesi. E neppure il paesaggio perché (ve lo dice un appassionato frequentatore della Francia), anche se non riusciamo a toglierci dagli occhi lo stupore che ieri ci ha preso di fronte all’immagine incredibile dei lacets de Montvernier, non possiamo pensare che in Italia non ci siano paesaggi altrettanto straordinari.

E allora, dov’è la differenza, che non si può negare esista? Direi in un fatto di natura culturale, antropologica. Nel senso di partecipazione e appartenenza che il Tour suscita e che le immagini televisive puntualmente trasmettono. C’è una premessa necessaria che riguarda la stagione: il Tour si corre a luglio in piena stagione di vacanze, il Giro in un periodo di piena attività lavorativa. Questo favorisce la trasformazione della corsa francese da avvenimento agonistico in una grande festa collettiva nazionale. Le riprese dall’elicottero hanno mostrato come non ci sia paese, borgo, campagna, specchio d’acqua, crinale, posto sul percorso del Tour, che non ne celebri il passaggio con coreografie di abitanti che riproducono fantasiosamente il logo della corsa.
E quanta passione per suoi i simboli: le maglie gialle, bianca, a pois rossi indossate, ricostruite come totem. E’ evidente quanto questa festa sia attesa, amata, vissuta, quanto sia diventata e resti un elemento forte di identità, un cardine della nazione, così importante da ricevere l’omaggio del Presidente. Inutile brontolare, polemizzare o incazzarci da invidiosi: noi su questa strada non ci siano ancora, o non ci siano più.

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