Sono tutti in fila, sotto il sole, mani infilate in grandi guantoni da lavoro. Si passano i mattoni velocemente, che siano piccoli o grandi sembra quasi che per loro non conti. Si asciugano la fronte un attimo ma non si fermano, se non per bere un sorso d’acqua. La maggior parte di loro ha una maglietta arrotolata in testa, per coprirsi dai raggi più forti. Lavorano sodo, ricostruiscono. In molti casi svuotano quel che resta delle case sventrate, rase al suolo in pochi minuti come se fossero state colpite da una bomba. E liberano così le memorie di chi resta. Restituendole a piccoli pezzi: una fototessera sbiadita che esce da un cassetto recuperato tra i cumuli di macerie, una barbie con ancora addosso i vestiti (lei), un abito da sera. A Dolo, in provincia di Venezia, l’8 luglio è passato un tornado. Le raffiche a 300 chilometri orari hanno scoperchiato i tetti e sono entrate nelle cucine e nelle camere da letto distruggendo le case.

Due giorni dopo, insieme alla protezione civile e ai vigili del fuoco, tra le strade coperte di alberi sradicati ci sono anche loro: i migranti. Quelli che abitano nel padovano e nel miranese. Perché si sentono parte della città e con la città vogliono collaborare. Ci sono i migranti accolti nella Casa don Gallo e nella cooperativa Percorso vita a Padova, ma anche dall’ostello Casa a colori di Giare. Una quarantina di richiedenti asilo, tutti sparsi tra Mira e Dolo che si sono rimboccati le maniche per la “loro” città. L’Arpav da una prima sommaria analisi ha classificato il tornado come EF4 secondo la scala Enhanced Fujita, superiore quindi come intensità rispetto alla tromba d’aria che aveva colpito Vallà di Riese Pio X (Treviso) il 6 giugno 2009. Vale a dire che la velocità del vento, stimabile in base ai danni riscontrati, è compresa tra 270 e 320 chilometri orari circa. Prima di mercoledì esisteva solo un precedente: nel 1930, a Selva del Montello. Quella volta a volare via fu un’intera chiesa. Questa volta sono state le case. E tutto quello che intere famiglie avevano costruito dentro.

Un dolore che le sigle degli esperti non riescono a raccontare. Loro, i migranti, però se lo ricordano bene. Si ricordano cosa vuol dire perdere tutto e non riuscire più a tornare. E hanno deciso di esserci, accanto ai cittadini di Dolo e Mira. Qualcuno è in Italia da più tempo, qualcuno ormai ci vive da qualche anno perché ha ottenuto lo status di rifugiato. “Vivo a Padova – dice Kostant che ha 23 anni, arriva dalla Costa d’Avorio – a pochi passi da qui. Ci hanno detto che serviva una mano, che la popolazione della Riviera aveva bisogno di noi e così eccoci, siamo qui per aiutare. Non ci ho pensato un secondo quando me l’hanno chiesto, qui è un vero disastro. Senza gli aiuti la popolazione dei volontari non si rialzerebbe. C’è chi ha perso tutto, dobbiamo dar loro una mano. L’hanno fatto con noi quando siamo arrivati, non vedo perché non avremmo dovuto farlo con loro”. Con lui ce ne sono altri. E in pochi giorni hanno rimesso in piedi diverse abitazioni. “L’appello a Roma è semplice – ha detto il sindaco di Mira Alvise Maniero (Movimento Cinque Stelle) – i parlamentari italiani siano all’altezza della forza e del coraggio che hanno avuto questi ragazzi, spesso giovanissimi, fra cui anche decine di profughi ospitati nei nostri territori”. Non è stato semplice però.

Le autorizzazioni, viste le condizioni in cui si trovano le case, erano difficili da ottenere. “E’ stato quasi più difficile andare a dare una mano che farlo veramente – dice Maurizio Trabuio responsabile della Casa a colori di Mira – la protezione civile non ci voleva perché ci sono condizioni di sicurezza difficili. I ragazzi sono entusiasti. Si sono sentiti molto utili e vogliono tornare tutti a dare una mano anche nei prossimi giorni”. Anche Dominic che ha 20 anni e qualche mese fa, per raccontare la sua storia era uscito dall’ostello a colori di Mira tutto “in ghingheri”, pantaloni larghi e cappello a frontino bicolor, collanina con la croce al collo. Dominic è in Italia da 12 mesi, in attesa di ricevere lo status di rifugiato. E’ scappato dalla Nigeria, lasciando la sua casa in fiamme e i suoi familiari uccisi uno ad uno davanti ai suoi occhi da una brigata di Boko Haram arrivata all’improvviso nella sua città. “Sono l’unico sopravvissuto di casa mia – dice – l’attesa non importa, la vita è più importante. Le cose si ottengono un po’ alla volta. Io ora spero di avere i documenti, poi comincerò a lavorare qui, a farmi una vita vera. Se ce la farò potrò ricominciare a vivere altrimenti per me non ci sarà pace. E’ anche per questo che sono venuto qui. Perché queste persone hanno perso tutto. E so cosa vuol dire”.

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