libassi“Passeggiando per Londra – racconta il cantautore torinese Daniele Li Bassi parlando del suo disco d’esordio ‘Il Lato Giusto’ – rischiavo sempre di essere investito perché sono un tipo super distratto e questo è un problema se le macchine non arrivano dal senso di marcia che ti aspetti. Così, giocando con le classiche scritte look right, look left, ho pensato: è come nella vita quando ti trovi davanti a un problema: se non guardi dalla parte giusta finisci schiacciato. E questo vale per tutto, siano essi problemi d’amore, soldi o desideri. Ho pensato fosse il titolo adatto”. È un disco con belle ballate d’amore, come ‘Una volta nella vita’, ‘Come l’estate’, ‘Leggero’, 12 brani scritti “soffrendo, ridendo, incazzandomi. Avevo la fortuna di avere la musica come mia compagna di vita e non potevo fare a meno di raccontare a Lei quel che stavo passando. Oltreché ai miei compagni d’avventura: Claudio “Arfi” Arfinengo alla batteria e Marco Lamagna al basso, ovvero la sezione ritmica di Eugenio Finardi; e poi al sassofono il mio vecchio amico Tiziano Di Sansa già in tour con Ike Willis voce di Frank Zappa e al piano Daniel Bestonzo che è uno dei pianisti più richiesti della nuova generazione in Italia. Insomma dei gran cazzuti che mi scarrozzo per tutto lo Stivale divertendomi e improvvisando ogni sera”. Sono canzoni nate fra Torino, Londra e Capoverde e rappresentano un backup emotivo o un personale striptease sentimentale, “perché solo da nudi ci liberiamo delle maschere e possiamo ridere delle nostre piccole meschinità. Un backup perché quando una cosa è importante ma non la usi più, non resta che salvarla da qualche parte. E io ho scelto un disco come contenitore”.

Daniele mi parli di te, del tuo background artistico e come mai hai deciso di darti alla musica?
Quando avevo quattro anni mi regalarono per Natale la mia prima chitarra. Siccome credevo che i segreti della musica fossero nella pancia dello strumento l’aprii in due ma non trovai niente. Questo mio gioco del ‘Piccolo Chirurgo Chitarrista’ si ripeté per tutti i Natali fino ai miei 10 anni quando iniziai a suonicchiare con la mia mini band dell’epoca. Con sollievo dei miei, che iniziavano anche un po’ a incazzarsi, finì l’epoca del sezionar chitarre.

Da lì, quindi ti ritrovi inghiottito in un vortice di “sale prove ammuffite, palchi scoperchiati alternati agli studi in Conservatorio mattutini.
Esatto. La notte suonavo nelle jam session più maffe e mal pagate della mia città, parlo di una vivace seppur cementata Torino di fine anni Novanta. Niente tutorial, niente menate. Suona o scendi dal palco questo era il mood dell’epoca. E io essendo pigro, dal palco non volevo mai scendere. Di giorno studiavo chitarra classica e poi composizione al conservatorio Verdi. È stato così che ho iniziato, e anche se è stato faticoso, non cambierei quei ricordi con nulla al mondo. Succedevano cose folli agli occhi di un sedicenne, aneddoti infiniti.

Cose folli?
Potrei raccontare del fisarmonicista con una mano sola, del batterista che morì mangiando cannoli siciliani e Marsala o della mia ex professoressa delle medie ritrovata a far la guardarobiera in un night di terza mano… lo chiamavamo così perché solitamente le altre due mani dovevi tenertele sugli occhi o avresti fatto incubi per tutta la notte.

C’è un evento particolare o qualcuno che ti ha segnato artisticamente?
Sì! Nell’estate del 1985 sono stato al mio primo vero concerto, di Ivan Graziani in un parco. Io chiaramente non lo conoscevo e forse neppure i miei genitori, ma ero incantato e inebetito davanti al palco perché oltre a essere un grande cantante, era un grande chitarrista e sul palco aveva qualcosa come 10/12 chitarre!

Da cosa trai ispirazione?
Cerco di ascoltare tutto quello che succede, se molto lontano da me sono ancora più contento perché così distruggo i pregiudizi che inevitabilmente ho. Ad esempio se ascolto un cantautore, so esattamente da dove viene, cosa ha ascoltato e se dorme su un fianco o no. Questo perché è vicino alla mia formazione, se invece ascolto un gruppo di elettro-pazzoidi giapponesi non posso usare le mie solite schedine mentali, perché non conosco il genere e così torno a godere della musica, come ascoltatore. Mi ispiro a questo, alle cose che non conosco e che mi danno spazio creativo senza stilemi.

Se le persone ascoltano le canzoni non per scoprire te, ma per ritrovare in esse loro stesse, su cosa credi rifletteranno?
A volte le persone mi chiedono di cosa parla un brano, io solitamente chiedo prima a loro cosa è arrivato, perché la cosa pazzesca è che solitamente il loro punto di vista è molto più interessante o poetico del mio, quindi lascio a loro la spiegazione. Non so se rifletteranno sulle mie canzoni, io spero solo che servano: se una canzone aiutasse a una sola persona nell’intero universo, avrei la conferma di aver fatto bene il mio lavoro e questo mi basta. C’è spazio per tutti nel mondo, ma se una canzone non serve a nessuno allora è solo una bugia detta male. E per queste non c’è spazio.

C’è un fil rouge che lega le canzoni del disco: hai scoperto, attraverso il cellulare, che la tua ragazza ti tradiva. Una botta tremenda, immagino. La curiosità può far star male a volte. Come è andata a finire?
Ahhh ahhh sì! Sì! Il primo consiglio è di non raccontare le vostre disavventure a un amico cantautore o quello ci scriverà su una canzone come ho fatto io nel caso del ‘Cellulare’. Quella sembra una canzone piccantina su un cellulare dimenticato invece è un brano sulla stupidità tutta maschile. Perché lui si incazza rinfacciandole di tutto. Poi però si accorge che anche lei sta scoprendo alcune cose su di lui… e sono molto più gravi, quindi alla fine oltreché esser peggio della sua ragazza è pure un frignone ipocrita e quindi gli sta bene! C’è sempre sai un perché succedono le cose.

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