Mustapha poco più di trent’anni fa ha lasciato il Kurdistan, direzione Inghilterra. Prima ha lavorato nel settore della ristorazione a Londra, poi si è trasferito vicino a Birmingham. Prima era un semplice lavoratore, poi ha aperto il suo ristorante.

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Ha da sempre sostenuto il suo popolo. Due anni fa è tornato in patria, per aiutare per un paio di settimane l’organizzazione. Non è più tornato. Una delle figlie non gli parla più. Di settimana in settimana il partito gli ha chiesto di rimanere. Ha esaurito i suoi risparmi, perché qua tutto è volontario. “Io do il mio tempo ed i miei averi, le mie sorelle e fratelli danno la loro vita a Kobane e nel Rojava, ed in tutto il Kurdistan. Come posso chiedere di più?”

Mustapha è stata la nostra guida in due dei quattro giorni di visita in Kurdistan. La rivelazione avviene alla fine degli incontri, quando stiamo aspettando un autobus di linea che da Urfa ci porti a Diyarbakir. Qualche ora prima la segretaria dell’Hdp aveva solennemente affermato: “Il nostro cuore batte dalla stessa parte”. Ci siamo commossi.

Ma è vero? È vero in un mondo della politica in cui, anche da quella che dovrebbe essere la nostra parte, “la politica è solo far carriera”? Qualche settimana fa, raccontando del Kurdistan e del Rojava, ho detto che erano persone pronte a morire per degli ideali, affermando implicitamente che anche noi lo dovremmo essere: tutti mi hanno sorriso, prendendomi per stolto o, al più, per eccentrico. Ma il nostro cuore batte dalla stessa parte?

I grandi vecchi della politica, parlando dell’Italia, della Costituzione e di tutte queste belle cose, sentenziavano: “non si fa la politica a pancia vuota”. A vedere la Grecia, coi risultati del referendum del 5 giugno, ed il Kurdistan, con una lotta pluridecennale, sanguinosa, in un paese poverissimo, verrebbe da dire il contrario. È la pancia vuota che ti costringe a fare politica.

In autobus, con un caldo cocente che rendeva vana anche l’aria condizionata, abbiamo attraversato centinaia di chilometri di terreno poco coltivato, giallo, molto poco abitato. Quei villaggi così lontani tra di loro, lo sforzo di entrare in ogni villaggio e di ricostruire relazioni, sono uno degli altri insegnamenti di un viaggio che potrebbe essere ‘turismo politico’. Ce l’ha detto, il primo giorno, il rappresentante di un campo profughi: “Qua vengono centinaia di delegazioni, ma rimane tutto uguale”. Potrebbe rimanere ‘turismo politico’ se tutto ciò che si impara non diventa pratica quotidiana, riflessione sempre presente, riferimento culturale.

La segretaria dell’Hdp, oltre ad averci commosso, ci ha chiesto a bruciapelo: “Come mai in questa delegazione non c’è neanche una donna?”. Il ruolo politico della donna, in un popolo che lotta contro l’Isis, è uno degli insegnamenti più profondi del viaggio. La donna proletaria al volante, che ci ha accompagnato in macchina da una parte all’altra della città per mezza giornata, coi pantaloni bianchi e la maglietta rosa, ne è l’esemplificazione. È estremamente emancipata, ma per rispetto delle sue sorelle anche lei segue i precetti del Ramadan.
Non è la prima volta che ci veniva fatta una domanda di quel tipo. La prossima delegazione sarda dovrà rispondere coi fatti alle tante domande e risposte che abbiamo avuto in Kurdistan.

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