Al suo arrivo a New York i media americani lo hanno già soprannominato “il Maestro”, in ossequio all’antico vezzo della borghesia anglosassone di utilizzare appena possibile gli stilemi del melodramma italiano. E negli articoli e nei servizi televisivi a lui dedicati si sprecano i riferimenti a Michelangelo, Verdi, Raffaello. Per altri sarebbe stato un inutile parossismo, per Andrea Pirlo no: lui in campo dipinge calcio, cesella assist, compone spartiti che la squadra segue come ipnotizzata dalla sua bacchetta. Non corre, non parla, in campo come nella vita lui pensa. Poi fa, con una calma che trasuda grandezza, una lucidità che deriva dalla saggezza.

Il titolo cartesiano della sua autobiografia “Penso quindi gioco” descrive un uomo e un giocatore di cui sono state esaltate a dismisura le qualità tecniche ma sempre sottovalutate quelle caratteriali. Lo spiegò un giorno Ancelotti, che al Milan spostandolo indietro sul campo di cinquanta metri dal ruolo di trequartista a quello di regista fu l’artefice di uno dei grandi capolavori della storia del calcio. Qualità caratteriali che lo portano, pochi giorni dopo la vittoria al Mondiale tedesco – dove è giudicato migliore in campo nella finale con la Francia, ma dove la maestria si vede la partita precedente quando, dopo 120 minuti di battaglia contro la Germania, ha il genio e la sfacciataggine di inventare dal nulla l’assist decisivo per il gol di Grosso – alla periferia di Brescia ad inaugurare una delle sue mille diversificate aziende.

Ha tante cose a cui pensare Pirlo, non ha tempo da perdere. Figlio di un industriale siderurgico, alla florida azienda paterna del bresciano ha aggiunto svariati investimenti imprenditoriali, immobiliari e agricoli. Tutto in silenzio, con una tranquillità che sfiora l’apatia, una flemma che rasenta l’indolenza. Come in quell’assist magistrale a Grosso, un tocco che è una sentenza – penso, quindi gioco – e che vale un titolo mondiale. Parla di rado ed esce ancora meno, parafrasando il cantautore, unico vezzo è quel look barba e capello lungo da icona cristo-guevarizzata che ne fa l’ultimo dei calciatori hipster.

Dopo il precursore Socrates “il Dottore”, il filosofo che salutava col pugno chiuso e praticava l’autogestione calcistica nella Democracia Corinthiana, ecco Pirlo “il Maestro”, l’industriale che vota a sinistra ma non lo direbbe nemmeno sotto tortura. Non lo direbbe comunque. A New York ha preso casa a Tribeca, sud di Manhattan, paradiso degli hipster dove i vecchi magazzini sono diventati loft alla moda, le celebrità hanno inflazionato i prezzi e cambiato l’architettura sociale del quartiere e Robert De Niro ha creato il suo festival di cinema.

A Tribeca si è presentato con i figli e la nuova compagna: unica variazione sul tema di una vita improntata al mistero. Due anni fa Pirlo si separa dalla storica moglie per fidanzarsi con una nota frequentatrice della società altolocata torinese. Si sviluppano curiosi triangoli rosa con l’amico Buffon, anche lui in fase di separazione, e l’avvocato Grande Stevens, attempato rampollo dello storico avvocato della Juve, ex della nuova compagna di Pirlo che si fa vedere in giro a sua volta con la ex moglie del calciatore. Non serve la riservatezza di Pirlo per mettere tacere le voci. La proverbiale discrezione sabauda che da secoli protegge scandali reali e borghesi cala una spessa coltre di silenzio sulla vicenda, di cui non si sa più nulla. Di Cartesio si conosce l’eredità filosofica razionalista e matematica, ma nei diari e nel suo tardo scritto Le Passioni dell’Anima lascia intravedere per un attimo tempeste emotive inimmaginabili: la più importante riguarda la meraviglia, quella che “il Maestro” Pirlo disegna sui campi di calcio.

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