Photo: 'Il Muro' @Andrea & Magda
Photo: ‘Il Muro’ @Andrea & Magda

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Sono anni, però, che Mustafa Barghouti non media con gli israeliani. I negoziati sono fermi, i soli a progredire sono gli insediamenti, la cui estensione, da Oslo a oggi, è raddoppiata: ormai sono il 40 percento della West Bank – la sua attività principale è mediare tra Fatah e Hamas. Perché per Hamas l’unica, per constringere Israele a trattare, non è costruire uno stato e appellarsi all’Onu: e tanto meno alla Corte Penale Internazionale: finirebbe sul banco degli imputati – l’unica è seminare paura. Sparare razzi. Catturare soldati. Attaccare coloni. Per i ventenni palestinesi, però, non c’è differenza: è quella che definiscono “la doppia occupazione”. Il solo momento di unità nazionale, in fondo, si è avuto nel 2011, quando hanno provato a seguire l’esempio di Tunisia e Egitto: e sono stati manganellati da Hamas a Gaza e da Fatah a Ramallah.

“Un terzo del bilancio è destinato alle forze di polizia”, dice Linah al-Saafin, 25 anni, una dei protagonisti di quei giorni. “Più che un processo di pace, questo è un processo di appeasement, con la collaborazione dell’Autorità Palestinese. Autorità nel senso non di autorevole, ma di autoritaria”. Come tanti altri, oggi non vive più a Ramallah. Vive a Londra. Perché se rimani qui, non hai alcuna prospettiva. I ragazzi più brillanti, come Nidal Maria, 26 anni, laurea in economia, campano come guide turistiche dell’occupazione, uno che organizza il tour dei checkpoint, un altro quello delle case demolite. “Ed è difficile. Perché sai che è necessario, è necessario mostrare agli stranieri la realtà: perché abbiamo bisogno della solidarietà, della pressione internazionale su Israele: ma è umiliante”, dice. Girare tra campi profughi come allo zoo. “La ricchezza che vedi è un’illusione. Un’illusione e una trappola. L’economia palestinese dipende da quella israeliana. Israele controlla le frontiere, le infrastrutture, controlla risorse cruciali come l’acqua – sostanzialmente, dirige la nostra economia verso settori complementari alla sua. E la mantiene entro certi limiti. Perché puoi fare il cameriere, a Ramallah, non certo il biotecnologo. E’ come stare al guinzaglio. Ricchezza, ma non troppo” – ricchezza abbastanza da contagiarti con il consumismo: ma per comprarti l’iPhone, firmi un mutuo trentennale. “Più che un guinzaglio, è un cappio”, specifica. “Perché poi, per ottenere le mille autorizzazioni di cui hai bisogno anche solo per piantare un albero in giardino, e soprattutto, per lavorare nella pubblica amministrazione o in Israele, le due sole opportunità vere, qui, e parliamo oltre della metà dei palestinesi, non devi essere coinvolto in attività politiche”. E cioè: o critichi Fatah e Hamas, o paghi le rate del mutuo.

La sola zona deserta di Ramallah, non a caso, è quella del Consiglio Legislativo. Non si riunisce dal 2007. Mahmoud Abbas governa praticamente da solo dal suo palazzo presidenziale. Governa per decreti. Il suo mandato è scaduto nel 2010. Jamal Jouma ha 53 anni, ed è uno dei nomi più noti della fase della resistenza avviata sulle ceneri, letteralmente, oltre 5mila morti, della Seconda Intifada: quando i palestinesi, esausti appunto sia di Fatah sia di Hamas, si sono organizzati in una rete di comitati popolari. Da allora ogni venerdì, hanno punteggiato la West Bank di manifestazioni contro il Muro. Manifestazioni pacifiche. “Per un po’ ha funzionato. Ma in fondo, tutto quello che abbiamo ottenuto è stato abbattere un trancio di Muro, spostarne un altro cento metri più avanti: niente di più. Il Muro è sempre lì, con il suo tracciato lungo il doppio del confine con Israele: e per l’85 percento, interno alla West Bank: a separare non gli israeliani dai palestinesi, ma i palestinesi dai palestinesi”, dice. E comunque ora il venerdì, a Bi’lin, a Ni’lin, luoghi ormai famosi, “è un po’ un copione già scritto”, ammette.

Venti, trenta ragazzini, verso mezzogiorno, marciano verso il Muro tra le Nikon di altrettanti attivisti stranieri. Dopo dieci minuti, piovono i primi lacrimogeni. Ragazzini e attivisti arretrano di cinque metri. Dieci minuti di pausa, e avanzano di due metri: altri lacrimogeni, arretrano di altri cinque. Altra pausa. Mezz’ora, e gli israeliani si stancano: passano ai proiettili di gomma – o ai proiettili veri: e il corteo, rapido, si disperde. “Ma in realtà non è una resa. Non è disinteresse. Il problema è che tutto, qui, avviene nella più totale assenza di leadership. Ed è comprensibile che in assenza di una strategia nessuno voglia rischiare di perdere per niente quel poco che ha”. Perché non importa che la Palestina non produca neppure un uovo. Che tutto quello che vedi sia consumo, siano i dollari dei donatori europei, degli sceicchi del Golfo: non crescita e sviluppo. Non importa che non sia ricchezza, siano debiti. La Seconda Intifada, in fondo, quando Arafat era sotto assedio, e per strada giravano non auto nuove ma carrarmati, era ieri.

Il tasso di povertà qui era il 75 percento. A Gaza l’80 percento. Più o meno quello che si registra oggi a Gerusalemme Est. Il 78 percento. E infatti sono mesi che in città si parla di una nuova Intifada. Mesi che per strada, all’improvviso, un palestinese accoltella un israeliano. Investe i passanti con un’auto, una ruspa. O spara. Ma non sono che cani sciolti. Ragazzi di meno di vent’anni senza alcun progetto politico, alcun coordinamento. Solo infinita frustrazione. A Gerusalemme Est ormai i coloni sono 200mila. I palestinesi 298mila. Nella West Bank si registrano uno, due, quattro morti a settimana. Troppo poco, in mezzo alla Siria, l’Iraq, lo Yemen, per finire sui giornali. E comunque a Ramallah, intanto, è l’estate festaiola di sempre. Musica e grigliate sui tetti. Gli unici a essere mobilitati, qui, sono i maxischermi. Tra una pubblicità di una coupé e una della Nivea, compare un bambino malconcio. “Donate un dollaro per i fratelli di Gaza”.

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