GOUY-SOUS-BELLONNE. Sei mesi dopo il massacro della redazione di Charlie Hebdo, siamo ancora tutti Charlie? Che fine ha fatto quel commovente e magnifico tsunami di solidarietà e di unità che si è rovesciato spontaneamente per le strade di Parigi, che è dilagato in tutte le città di Francia e anche in tante altre del mondo? Che cos’è rimasto delle solenni dichiarazioni d’intento dei governanti europei (ma non solo, c’erano tantissimi altri capi di Stato), tutti a giurare e spergiurare sulla difesa dei valori fondanti di un Occidente che predica tolleranza, democrazia, libertà e soprattutto unità? Se ben ricordo, quella domenica 11 gennaio in prima fila accanto a François Hollande c’era pure Angela Merkel, e dietro la cancelliera tedesca il primo ministro greco Antonis Samaras

Sei mesi dopo la spettacolare e possente pulsione globale di indignazione e di resilienza, quella voglia di stare uniti e di condividere uno stesso percorso fronteggiando la minaccia del terrorismo e quella delle crisi economiche si è frantumata, l’unità è diventata profonda divisione, l’Europa sembra sbandare, il terrorismo continua ad attaccare, la Grecia con orgoglio ha detto no alle proposte Ue, la Merkel è sola contro quasi tutti, Alexis Tsipras è diventato un moderno Robin Hood che vuole combattere la devastante egemonia della globalizzazione finanziaria e che si ribella all’austerità imposta dai Paesi cosiddetti “virtuosi”. Peccato che al suo carro si siano attaccati il peggio delle destre reazionarie in circolazione, perché in fondo la sua battaglia è ammirata dai deboli e i poveri di tutto il mondo, simbolo di una protesta che rischia di scombussolare la politica di mezza Unione Europea.

In questo senso, il possente messaggio di domenica 11 gennaio è diventato universale: oggi tutti siamo Charlie, ma in modo diverso, siamo vittime di un sistema ferocemente ingiusto che sta smantellando la società civile e che ci sta umiliando: il Grande Fratello non è più un’invenzione letteraria o uno slogan cinematografico, è amara realtà, è dittatura, si impone sempre più nella vita quotidiana, ci detta scadenze fiscali sempre più esose ed insopportabili, ci strangola negandoci lavoro e rastrellando i redditi dei ceti più deboli; la povertà si espande a macchia d’olio, le famiglie faticano a tirare avanti, le famiglie intendo che vivono onestamente, i redditi fissi facili da spremere, i pensionati impiccati da assurde tassazioni; sull’altro lato della barricata, i ricchi spaventosamente sempre più ricchi, i corrotti, i servi dei padroni e del potere, una classe politica impresentabile e incompetente. Ecco perché Charlie è diventato un messaggio di speranza, un sisma identitario. Sei mesi dopo la mattanza di Parigi, #jesuisCharlie sopravvive. In modo diverso, più combattivo.

E i sopravvissuti? Sei mesi dopo, Charlie Hebdo non si progetta come una volta, magari al tavolino di un bistrot, ma sotto la protezione della polizia, in un ambiente blindato e per questo ancor più angosciante, all’ottavo piano della redazione parigina di Libération, dove una guardia armata ti scorta in ascensore e controlla che tu sia veramente quel che dici di essere. Davanti all’ingresso della redazione decimata stanno in permanenza un paio di agenti, un terzo è leggermente più lontano, sul grande corridoio a spirale che collega i vari piani dell’edificio. Se vuoi parlare con qualcuno della redazione devi aspettarlo fuori, una vetrata opacizzata divide Charlie Hebdo dal resto del mondo: “Siamo stati duramente colpiti, ma siamo ancora in piedi”. Fort Apache della satira.

Le Nouvel Observateur (l’Obs) ancora in edicola dedica la copertina a Charlie, dominata dal verde (il colore dell’Islam) come la celebre prima pagina del settimanale satirico su Maometto, nel primo numero dopo la strage del 7 gennaio. Strillo di copertina: “Charlie, sei mesi d’inferno”. Infatti l’inchiesta firmata da Marie Lemonnier e Vincent Monnier racconta non la storia di una felice resurrezione bensì il dramma – anzi, lo psicodramma – di una vicenda da crisi a ripetizioni, da scazzi tra colleghi, da litigi sul futuro del periodico e sui soldi – a cominciare dalle donazioni e dai fondi raccolti, oltre 4,3 milioni di euro – che hanno sviluppato tensioni e rivendicazioni (le famiglie delle vittime), insomma, “nerfs à vif”: stress, traumi, problemi inconciliabili con la nuova vita redazionale. E tanti rimpianti.

Così ecco che 15 dipendenti su 19 hanno chiesto una nuova struttura direttiva, dove essere trattati come “dipendenti azionisti alla pari” (Charlie Hebdo è controllato al 40 per cento dai genitori di Charb, il direttore ucciso nella mattanza, al 40 per cento da Riss, l’attuale direttore e al 20 per cento dal direttore generale Eric Portheault). E proprio oggi, Maryse Wolinski, la vedova del grande vignettista, ha deciso di costituirsi parte civile nei confronti delle forze dell’ordine, “per comprendere” come mai la sicurezza della redazione di Charlie non sia stata garantita al meglio, nonostante le continue minacce e gli attentati già subiti.

All’inizio di maggio Luz, al secolo Renald Luzier, l’autore della copertina su Maometto, divenuta simbolica bandiera di Je suis Charlie, ha meditato di mollare (a settembre: c’è dunque tempo per ripensarci), di dire “basta con l’Islam”, per capire che cosa gli riserva il futuro e che cosa farne. Si è salvato perché era andato a comprarsi una torta, è rientrato e il mondo gli si è rovesciato addosso, il ricordo, le emozioni, il dolore gli sono rimasti impressi nella memoria, l’orrore, il sangue, i corpi esanimi degli amici sono incubi ricorrenti. Luz e altri colleghi hanno scritto un appello pubblico contro l’attuale direzione del disegnatore Riss (Laurent Sourisseau, ferito al braccio durante l’attacco dei fratelli Said e Cherif Kouachi) “per tornare a parlarci”, ciò che spiazza coloro che lavorano a Charlie Hebdo è questa spada di Damocle-Allah sospesa sulla testa e pronta a staccargliela, non accettano che l’immaginazione – fonte del loro lavoro – sia la causa dell’odio, del furore, del fanatismo assassino, delle condanne a morte in nome del Califfato o decretate da cellule terroristiche, così come è struggente leggere il libro postumo del direttore Charb – pseudonimo di Stéphane Charbonnier – che può essere considerato una sorta di testamento di una generazione di caricaturistici. S’intitola “Lettera ai truffatori dell’islamofobia” che fanno il gioco dei razzisti. In Italia lo pubblica Edizioni Piemme.

Il libro l’aveva finito di scrivere giusto due giorni prima dell’attentato. Lo scopo, spiegava Charb, era denunciare l’uso distorto della religione che fanno i terroristi. E anche certi grossolani pregiudizi. Come la “contorta teoria” secondo la quale l’umorismo dovrebbe “essere meno compatibile con l’Islam”. E perché mai? “Dire che l’Islam è incompatibile con l’umorismo è altrettanto assurdo che sostenere che l’Islam è incompatibile con la democrazia o con la laicità…”. E ancora: “Se lasciamo intendere che si possa ridere di tutto tranne che di certi aspetti dell’Islam perchè i musulmani sono molto più suscettibili del resto della popolazione, non li stiamo forse discriminando? La seconda religione al mondo, la presunta seconda religione in Francia, non dovrebbe essere trattata come la prima?”.

Luz continua a pubblicare, sua è la copertina del primo luglio, si vede un tizio coi tratti vagamente arabi che esce dal mare e mette un piede sulla spiaggia mentre una donna grida: “Un islamista!”. Il tipo ha sulla testa una medusa che gli fa da turbante. Replica mesto: “Mais non médusé”, un gioco di parole, perché médusé vuol dire anche stupefatto, sconcertato… L’editoriale di Riss è intitolato “Adieu tranquillité”. “Una data anniversario, ci dicono in tanti, forse in troppi – fa capire Riss – i media in testa a far grancassa, sollecitano testimonianze di chi è rimasto vivo ed è rimasto all’Hebdo. Come va dopo sei mesi? La salute (sottinteso: mentale)? Il morale? E il denaro? E l’ambiente? Va bene o va male?, Bene, rispondeteci sì o merda”.

Riss risponde che, senza tradire il pensiero dei collaboratori, si potrebbe dire che va “di merda”, uno stato d’animo “perché noi in questi sei mesi ci sentiamo spossati. Ci hanno svuotato. Quando si è vissuto quel che abbiamo vissuto noialtri, non c’è anniversario. Ogni giorno è un anniversario. Durante un attentato, si conta il tempo a secondi, ogni secondo che passa ti dici ‘sono sempre vivo’. Ti aspetti che ogni secondo sia l’ultimo. Da sei mesi, si conta ormai il tempo giorno dopo giorno. Un giorno è passato, sono ancora in piedi. Un altro giorno è passato, sono ancora in piedi. Ne sono passati di secondi ogni giornata, che progresso! Ma ci diciamo che questo forse non durerà. L’incertezza inaudita subita il 7 gennaio fa ormai parte di tutti i nostri giorni. Nulla è più sicuro”.

Riis è caustico, le stragi sulle spiagge tunisine, le immagini terribili dei corpi riversi sulla sabbia, sotto gli ombrelloni, lo inducono a scrivere che se è vero che esiste un’internazionale del terrorismo è altrettanto vero che ormai c’è un’internazionale delle vittime. Una comunità silenziosa di coloro che hanno vissuto gli stessi istanti. Li si vede testimoniare in tv, ma si sa già quel che trattengono dentro. Deve essere questo, l’indicibile: “Solo chi ha vissuto un’esperienza simile può comprendere senza aver bisogno di parlarsi. Un’internazionale dell’indicibile, fatta di medesime emozioni, di medesime paure, di medesime pene”.

Fra sei mesi, altro anniversario. Altre domande in attesa di risposte. Disegnerete ancora Maometto? Come se questo fosse il problema. Nessuna vittima degli attentati in Tunisia ha mai disegnato Maometto, tantomeno l’imprenditore decapitato in Francia. Eppure li hanno ammazzati. La questione non è disegnare Maometto, ma semplicemente disegnare la democrazia. C’è la banalità del male. E la banalità delle domande: “Allora, come va, dopo questi sei mesi?”. A domanda breve, risposta ancor più breve: “Lasciateci tranquilli”.

Adesso vi spiego perché firmo questo pezzo da un villaggio del Pas du Calais che si chiama Gouy-sous-Bellonne. Francia profonda, provincia che più provincia non si può: quella amata dal Tour de France che è saga popolare. Nella piazzetta principale c’è un bar dove trovi i giornali. Non c’è Le Monde, tantomeno l’Obs. Ci sono i quotidiani locali, i settimanali del pettegolezzo, le pubblicazioni di sport, moda e cucina. C’è la Voix du Nord. E c’è Charlie Hebdo.

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