Nell’abitato di Potocari, a due passi dalla fabbrica della morte e dalla spianata del pianto, in mezzo ad alcune case ridotte a ruderi, c’è un campo di calcetto. Spesso è occupato da bambini e ragazzini. Indossano maglie di squadre di calcio importanti. Di fronte un piccolo alimentari e la fermata dell’autobus della linea che collega Srebrenica a Bratunac. La strada sale dolce verso la città termale. Coprire la distanza a piedi equivale a ritornare ai giorni dell’orrore, la stessa distanza coperta da nuclei familiari disgregati. Oggi non si rischia una pallottola, gli abitanti ti salutano, offrono un “cay” o un bicchiere d’acqua, l’ostacolo della lingua solo un dettaglio.
“Atti di genocidio”
Srebrenica, 20 anni dopo il crimine continentale di maggiori dimensioni dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Crimini trasformati in “atti di genocidio” dalle sentenze del Tribunale Penale dell’Aja per la ex Jugoslavia (Icty). Eppure, come accade da cento anni per il “Grande male” armeno, una delle parti in causa, la Serbia in questo caso, non li riconosce o li minimizza.
Fango sulla memoria degli oltre 10mila morti (sebbene la targa al memoriaporti la cifra 8.372) e sul dolore dei loro cari. La vigilia dell’anniversario numero 20 è scossa dalle polemiche sull’arresto, il 10 giugno scorso a Berna, di un leader militare bosniaco, Naser Oric, attivo durante la guerra balcanica. Nemico pubblico dei serbi di Bosnia, eroe per i bosgnacchi. Arrestato nel 2003 e processato dall’Icty per crimini di guerra, da cui è stato prosciolto nel 2008, stava per finire nelle mani della giustizia serba che ne aveva chiesto l’estradizione alle autorità svizzere. Alla fine è stato estradato in Bosnia. Questa vicenda sta avvelenando il clima, al punto da mettere in discussione lo svolgimento delle celebrazioni dell’11 luglio.
Sabato, alla spianata del memoriale di Potocari, è attesa una folla di poco inferiore alle 100mila persone. Tra loro Capi di Stato, ambasciatori, ministri degli Esteri, compreso il nostro Gentiloni; con lui anche la Presidente della Camera, Laura Boldrini. Assenti, con ogni probabilità, i vertici di Belgrado: “Aspetto di essere invitato ufficialmente” ha replicato il premier, Alexandar Vucic, polemizzando col sindaco di Srebrenica, Camil Durakovic.
Bosgnacco, originario di Srebrenica, tra i pochi a essere sfuggito alla morte, attraverso i boschi, per raggiungere Tuzla, la terra promessa. Meno di dieci anni fa è tornato in patria dagli Stati Uniti e da cinque anni è alla guida della complessa municipalità. ‘Druze Tito, mi ti se kunemo’. La frase è incisa su una lastra della fabbrica di batterie per navi a Potocaric, Goražde e Žepa, “Zone protette”, capace di inviare nella cittadina termale poche centinaia di soldati imberbi, impotenti e sottomessi al volere del generale invasore, Ratko Mladic.
A capo del contingente olandese, il famoso Dutchbat, c’era il colonnello Ton Karremans. Le immagini girate a Potocari, nel video della vergogna, lo immortalano “culo e camicia” col “Boia dei Balcani”; la stretta di mano di benvenuto, un bicchierino di rakija con tanto di brindisi per il buon esito dell’occupazione, il suo genuflettersi al capo militare serbo bosniaco senza trattativa alcuna, senza chiedere aiuto, senza riportare l’esatta portata degli avvenimenti. Ecco, Ton Karremans, figura chiave del fallimento Onu nel 1995.
Eppure, appena un anno prima, la stessa figuraccia le Nazioni Unite l’avevano fatta in un altro scenario di sangue, il genocidio ruandese. Allora toccò al generale Romeo Dallaire – anch’esso olandese di nascita seppur canadese di adozione – assistere impotente allo sterminio dei Tutsi da parte delle milizie dell’Hutu Power. Con una sostanziale differenza: Dallaire denunciò il disegno genocidiario che si stava consumando e cercò in tutti i modi di far recepire  la reale portata dell’evento, ricevendo in cambio colpevoli silenzi.
Quanto a coscienza, gli olandesi hanno molto da farsi perdonare in Bosnia. Quando il peso, il fardello piuttosto, non ti fa dormire, si finisce col tracimare nella solidarietà bulimica. Il governo olandese è in testa per donazioni a Srebrenica, oltre 120milioni di euro, destinate alle infrastrutture, al memoriale di Potocari e alla ricerca e riconoscimento delle vittime; i progetti di volontariato si sprecano, i meeting tra le autorità olandesi e le organizzazioni delle vittime sono frequenti. Il mea culpa è evidente, alcuni soldati del Dutchbat, erosi dal rimorso, tornano spesso sulle rive della Drina, alcuni si sono addirittura trasferiti in pianta stabile.
Il rimorso olandese
Eppure è difficile dimenticare la connivenza del battaglione con le atrocità, al punto, secondo le carte ufficiali dei processi, da prendere parte alle violenze e agli stupri di massa, una moda nella Bosnia degli anni ’90. Domani, nei pressi di Tuzla, prenderà il via la Marcia della Vita: cento chilometri  in quattro giorni. È lo stesso tracciato, al contrario, percorso dagli uomini in fuga da Srebrenica in quei giorni di luglio del 1995. L’ultima tappa, il 10 luglio, partirà da Konjevic Polje per raggiungere il memoriale di Potocari. Percorso lastricato di corpi e fosse comuni, realizzando la via crucis del dolore musulmano.
di Pierfrancesco Curzi 
da Il Fatto Quotidiano del 6 Luglio 2015
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