Mentre esperti, politici, economisti, giornalisti disegnano ogni giorno tutti gli scenari possibili del dopo-referendum, in un’isola sperduta dell’Egeo, tra turisti stranieri disorientati e greci rassegnati, la discussione politica entra, lentamente, nel vivo. Con esiti imprevisti. E un inguaribile fatalismo
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2 luglio 2015

simeon-bargrecia«Hai letto? La Grecia è in default. C’è scritto su tutti i giornali», dice Søren a Eleni che gli porta la birra al tavolo.
«E io che ci posso fare?».
«Niente, niente, te lo volevo solo dire».
«Eh grazie, si goda la birra. Salute».

Søren avrà cinquanta anni, norvegese come le due figlie ventenni biondissime che tiene al guinzaglio e sono sedute due tavoli più in là, tra gli sguardi sbavanti della gioventù locale. Siamo da “Simeon”, il cocktail bar sul porticciolo dove vanno a morire gli elefanti della notte, in buona parte scandinavi. E’ qui che decidiamo di passare la nostra ultima sera sull’isola.

«La crisi, il default. Non ne vogliono parlare», attacca discorso Søren, capelli bianchi tirati indietro, camicetta a fiori e pantaloncini rosa.
«Beh, li capisco. Sarei sorpreso del contrario», gli rispondo.
«Sì, in effetti. Noi è da dodici anni che veniamo, sempre qui, conosciamo tutti. E torneremo anche l’anno prossimo, sai? In fondo, comunque vada, a noi che cosa cambia? Se serve pagheremo in dracme».

Intanto dal tavolo vicino al banco si alza il proprietario del locale, Simeon in persona, un tipo magro sui sessanta, capelli bianchi lunghi raccolti in un codino, occhiali, faccia consumata dal sole e sigaretta sempre accesa.

«Ho sentito quello che stavate dicendo. Non sono d’accordo», ci dice, avvicinandosi al tavolo.
«Siediti, siediti Simeon», gli dice Søren, mentre non smette di monitorare la più giovane delle due figlie, già visibilmente sbronza, che sembra opporre sempre meno resistenza a un ragazzino greco molto intraprendente.
«Dovete capire che qui è diverso», riprende Simeon. «Le isole sono un altro pianeta rispetto ad Atene, alle altre città. Qui tutto sommato stiamo bene. Quindi che senso ha tirare fuori i disastri che succedono ad Atene?».
«Sempre che non vi alzino l’Iva», ribatto io, perfido.
«Quello è uno scandalo!», alza il tono della voce e la faccia gli s’incendia di colpo. «Ora paghiamo il 6%. Sai quanto pagano sulle isole turche? Il 5%. In Spagna il 3%. E ora da noi vogliono alzarla al 23%. E’ una follia, con i costi che abbiamo. Ci vogliono rovinare! E sapete chi c’è dietro?»
«Chi?»
«Ma è chiaro. La Germania! Sapete chi controlla buona parte degli hotel sulle isole turche, i mega residence, i resort? Sono imprese tedesche. E ora vogliono approfittarne della crisi per fare piazza pulita. Questa è concorrenza sleale!».

Oggesù, ci mancava solo il barista complottista. Io e Søren cerchiamo di ricondurlo alla ragione ma non c’è verso. Anzi, Simeon diventa sempre più intrattabile.

«La gente qui svende le case», continua. «Roba da 250.000 euro che va via a 50.000. E sapete chi compra a man bassa?».
«I teeeedeschi», rispondiamo io e Søren in coro.
«Esatto, esatto», vedo che avete capito finalmente. «Ora però si vota “no” domenica. E poi vedremo. Anche se ho paura. Ho paura perché l’opposizione, Pasok e Nea Dimokratia, stanno terrorizzando la gente. Dicono che se non si vota “sì” moriremo di fame. Ma per piacere! Pensino piuttosto ai disastri che hanno combinato».

Io e Søren ci guardiamo, scuotiamo la testa e ordiniamo un’altra birra. Simeon si rialza, cammina verso il banco e si accende la trentesima Marlboro con uno sguardo soddisfatto.
La colpa di tutto è dei tedeschi. Una volta individuato il capro espiatorio la vita ti sorride di nuovo. E tutto sembra più facile.

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