Questa è la storia di Anna, Claudia, e del piccolo Alfredo. L’ho ascoltata per un’intera giornata, e l’ho scritta per voi.

Ho un figlio di due anni, Alfredo, concepito in 36 mesi invece di 9, insieme a un’altra donna. E’ stato necessario quattro volte il tempo utile a partorire un bambino ‘normale’ perché, a parte il fatto che i rapporti sessuali tra me e Anna, la mia compagna, sono fisiologicamente sterili, tra dubbi, ricerche, letture, studi, analisi, psicoterapie, qualche discussione, tanto dialogo e vari viaggi in diverse cliniche europee, il percorso non ha avuto quell’immediatezza spumeggiante dell’amplesso da letto ma è stato lungo e tortuoso (oltre che entusiasmante).

Ascoltando e leggendo come altri omogenitori raccontano e definiscono le loro esperienze, Alfredo avrebbe ‘due mamme’. Noi però non ci troviamo bene con questa denominazione, e preferiamo farci chiamare “mamma” e “Anna”. Secondo la nostra sensibilità e il nostro sistema di credenze, infatti, Alfredo non ha due mamme, perché la mamma sono io e per me è importante distinguere l’esperienza fatta con mio figlio da quella che ha fatto Anna. Ci tengo a dare valore, nome e memoria al fatto di averlo portato in grembo, partorito e allattato. Anna ha la sua storia con suo figlio, che è diversa dalla mia, diversamente intensa. Anna quindi si chiama Anna. Oltretutto, “mamma” sarebbe squalificante per lei trattandosi di non-qualcosa (per esempio non-maternità biologica), ma soprattutto per la violenza con cui le leggi del nostro Paese la cancellano. Certo, non è nemmeno un papà – oltretutto, anche lei come me, non ha alcun tratto mascolino, né fisico né psicologico né comportamentale.

Non c’è insomma ancora un nome per il genitore che, accanto a una mamma (o a un papà, nel caso di una coppia omogenitoriale maschile), esercita la sua genitorialità, e per questo, ad oggi, Anna è “Anna”. Da quando Alfredo va all’asilo, tuttavia, Anna è diventata “mamma Anna”, perché “gli altri” (eterosessuali, omosessuali, attivisti LGBTQI, omofobi, giornalisti, etc) chiamano così i due genitori donna di un bambino.

Tutto questo per dire che è importante non trovarsi in una storia unica, in un pensiero unico: cioè, di nuovo, in uno stereotipo. Le esperienze delle famiglie come noi, ossia “nuove”, sono pionieristiche, ed è fondamentale – ancora più di sempre – conservarne l’unicità ed evitare di appiattirle in un racconto amorfo, teso solo a rafforzare e confermare un’ideologia. Le rivoluzioni e le militanze servono eccome, ma il mondo evolve più lentamente dei colpi di scena, e senza essere gravidi di storie, non si digerisce alcun cambiamento.

Ma facciamo un passo indietro. Io e Anna, quando ci siamo conosciute e innamorate, avevamo entrambe avuto altre esperienze omosessuali, ma in noi prevaleva l’attrazione, sia sessuale che sentimentale, per gli uomini. Gli etichettatori ci definirebbero “bisessuali”, anche se su tale orientamento si sa pochissimo, e pochissimi sono gli studi internazionali. Felici, abbiamo costruito una relazione affettiva gratificante basata sull’apertura della coppia alle relazioni eterosessuali, tutt’e due per nulla gelose (anzi divertite) da altri incontri.

Il desiderio di condividere la genitorialità è cresciuto con una spinta inversamente proporzionale alla passione che ci legava. In poche parole, quando abbiamo deciso di fare un figlio, il nostro era diventato un “cold bed”. Ma, invece di essere deluse, ci siamo rafforzate e unite: ciò che ci legava non era un amore romantico, una passione travolgente, ma il comune desiderio radicato di mettere al mondo un altro essere umano, di educare e crescere una persona felice e capace di creare valore, per sé e per gli altri.

Mentre approfondivamo ed esploravamo i punti di vista più rilevanti di esperti e studiosi internazionali sulla questione omogenitorialità, mentre ci informavamo sulle diverse possibilità per accedere alla procreazione assistita (ovviamente all’estero, essendo in Italia vietata), mentre ci confrontavamo con le associazioni impegnate sul tema e con famiglie che prima di noi avevano fatto questa esperienza, mentre incontravamo avvocati specializzati in diritto di famiglia LGBTQI, facevamo anche una terapia personale. Nello specifico, entrambe una psicoanalisi freudiana: lunghissima, inutile. Anzi: nociva.

Parlando per me, la mia analista ha tentato, per circa dieci anni, di “correggere” la mia omosessualità, scambiando la mia bisessualità per una eterossessualità imperfetta. Il problema è stato che, non “guarendo”, ho cambiato professionista ma, purtroppo, non scuola. Il secondo psicoanalista puntò invece su una omofobia sociale introiettata, convinto quindi che il mio orientamento fosse di tipo omosessuale ma che io non riuscissi ad accettarlo. Un simile atteggiamento l’ho incontrato in molte persone omosessuali, così come amici eterosessuali mi hanno spesso restituito l’immagine di persona eccentrica e un po’ trasgressiva che, pur essendo eterosessuale, si divertiva a assumere atteggiamenti sessualmente ambigui. Solo qualcuno, curioso per natura e bravo a prestare ascolto in modo disinibito, ha colto la verità che poi, negli anni, è diventata la mia, la nostra.

Prima di Alfredo, io e Anna non facevamo grandi coming out, appunto per prime un po’ confuse sul tipo di coppia che eravamo e sui nostri orientamenti sessuali che, dicevo, a detta degli esperti non rientravano in alcuna casistica. Gli amici che venivano a casa, in grande maggioranza eterosessuali, ascoltavano le nostre confidenze, così come noi ascoltavamo le loro, ma con chi non avevamo occasione di approfondire la conoscenza non ci lanciavamo in grandi dettagli sulla nostra convivenza.

Quando siamo diventate genitori, abbiamo naturalmente cominciato a presentarci come coppia, soprattutto per semplificare la vita di Alfredo che presto avrebbe cominciato a capire, e che aveva già un peso non indifferente sulle spalle da portare: quello di essere diverso dalla maggior parte dei bambini, ossia avere due genitori dello stesso sesso.

Oggi, dopo la estenuante fatica dei primi due anni tra notti insonni, malattie esantematiche, e due lavori molto impegnativi, ci siamo rasserenate, e la nostra solitudine è diventata la nostra libertà: pur non potendoci identificare né con le famiglie e le coppie eterosessuali né con quelle omosessuali, pur avendo perso tanto tempo e tanti soldi a curare qualcosa che non era patologico, pur senza il sostegno delle associazioni LGBTQI – che non ci riconoscono come “uno di loro” per le nostre opinioni poco “allineate”, pur con le difficoltà di convivenza coi pregiudizi sociali su una architettura affettiva così irrituale, siamo felici della nostra relazione di co-parenting. Siamo cioè una famiglia senza essere una coppia romantica. Siamo due donne, prevalentemente eterosessuali, che hanno scelto di mettere al mondo un figlio alleandosi tra loro, forti dei sentimenti di solidarietà, cooperazione, complicità, lealtà, fiducia, convinte che siano chiavi più importanti di passione, attrazione, innamoramento, seduzione, per garantire a una famiglia e a un bambino solidità, equilibrio, dinamicità, ascolto.

Come in molte famiglie eterosessuali e non solo, anche noi abbiamo relazioni extraconiugali (con uomini prevalentemente), con la differenza che le nostre sono trasparenti e non recano quindi danno e dolore ad alcuno. Leggendo le statistiche dell’ultimo censimento sulla fragilità delle famiglie tradizionali, crediamo che la co-genitorialità (sia eterosessuale che omosessuale, l’orientamento, ormai si sa, non c’entra) sia una possibilità decisamente rispondente alla contemporaneità, con caratteristiche di funzionalità decisamente competitive, e realmente capace di costruire con creatività quelle garanzie di serenità di cui soprattutto un bambino ha tanto bisogno”.

Aggiungo soltanto due considerazioni:

1) La forza di questo racconto sta nel considerare interlocutore la società tutta, non divisa in eterosessuali e omosessuali. Secondo Claudia, infatti, la discriminante tra chi può comprendere una storia di affetti diversa dalla propria e chi no non è data dalla possibilità di identificarsi con il proprio orientamento sessuale, ma dall’apertura o dalla chiusura delle singole persone, capaci o incapaci di relazionarsi ad altre persone senza pregiudizi, stereotipi ed etichette. E’ vero, dovremmo sforzarci tutti di considerare sempre chi abbiamo di fronte semplicemente un “portatore di storie”, di esperienze, rinunciando non alle opinioni ma al giudizio.

2) La Società Psicoanalitica Italiana solo di recente ha aperto le porte anche agli analisti omosessuali. E solo l’ultimo presidente, Antonino Ferro, si è espresso ufficialmente a favore. Consiglio quindi di stare molto attenti ai professionisti che si scelgono per dare in carico un problema che ci dà sofferenza. Per esperienza più o meno diretta (ho formato psicologi, assistenti sociali, ed educatori per la Facoltà di medicina e Psicologia La Sapienza), posso consigliare eccellenti professionisti (omosessuali e non) come i professori Vittorio Lingiardi (Milano), Roberto Baiocco (Roma), e Silvia Mazzoni (Roma), così come il servizio “Sei come sei” dell’Università La Sapienza, sempre a Roma. Bisogna infatti stare molto attenti ad affidarsi a chi non ha esperienza specifica su tematiche LGBTQI.

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