Tutto rinviato alla prossima seduta. Che già si preannuncia bollente perché c’è chi, come il senatore del Partito democratico Franco Mirabelli, vorrebbe rimettere mano al codice di autoregolamentazione approvato da tutti i partiti meno di un anno fa: «Una discussione su come agisce l’Antimafia in casi come questi va fatta, il sistema non funziona». La riunione della commissione parlamentare Antimafia andata in scena il 10 giugno, la prima dopo la presentazione della lista degli “impresentabili” diramata due giorni prima delle Regionali del 31 maggio scorso e che tante polemiche ha scatenato, si è conclusa dopo circa un’ora senza colpi di scena. Di fatto l’appuntamento, iniziato intorno alle 20.15 a Palazzo San Macuto, sede della commissione, si è esaurito con la relazione della presidente Rosy Bindi (Pd), che ha ricostruito l’ultimo mese di lavoro del gruppo impegnato nella verifica delle liste, così com’era stato stabilito nella riunione dell’Ufficio di presidenza e dei capigruppo. Alcuni dei presenti parlano di un clima «freddo e teso». Anche perché in molti, soprattutto al Nazareno, non hanno ancora digerito l’atteggiamento della Bindi. Colpa della presenza in quell’elenco di Vincenzo De Luca, candidato dei democratici a governatore della Campania (poi eletto). Per qualcuno usata come strumento di lotta politica.

PROCESSO RINVIATO – Non è un caso che alcuni componenti della commissione avrebbero voluto dare immediatamente vita allo scontro, magari chiedendo già ieri il passo indietro della Bindi. «Si è tentato di aprire un dibattito da parte dei soliti noti, Mirabelli e Marco Di Lello (Psi) in testa, per contestare la ricostruzione della presidente – racconta a ilfattoquotidiano.it il fittiano Tito Di Maggio –. Tentativo stoppato dall’intervento di altri colleghi che hanno fatto notare che non era quella la sede per aprire la discussione». Non è tutto. Perché, spiega il senatore ex Scelta civica, «mentre si cercava di aprire il processo alla Bindi c’è stato anche il tentativo subdolo di inserire nella discussione il tema della rivisitazione del codice di autoregolamentazione che, a questo punto, credo diventerà argomento di dibattito nelle prossime sedute della commissione». Proprio così. Ma per Di Maggio, che pure, in Parlamento, è schierato all’opposizione, «il comportamento della Bindi è stato irreprensibile. Mi sono anche permesso di citarlo come modello: mi piacerebbe avere un presidente del Senato che si comportasse come lei. Cioè un presidente super partes, che non tifa per il partito che lo ha espresso ma è garante del corretto funzionamento dell’Istituzione cui è preposto – aggiunge –. Il comportamento della Bindi è stato così scrupoloso che tutti i tentativi di coglierla in fallo da parte di quei commissari che giocano più da tifosi che da ispettori sono caduti nel nulla». Ricostruzione, quella di Di Maggio, confermata da Francesco Molinari, senatore ex Movimento 5 Stelle oggi nel gruppo Misto. «Il codice deontologico non si tocca – dice tranchant –. È un muro che abbiamo eretto all’unanimità contro la mala politica e che non deve essere trasformato in un momento di scontro politico. Altro che cambiarlo: la battaglia da portare avanti deve essere mirata a far sì che questo diventi parte integrante degli statuti di tutti i partiti».

ASSALTO ALLE REGOLE – La pensa diversamente il deputato socialista Marco Di Lello, altro componente della commissione che da subito si è schierato in aperta polemica contro la Bindi per come ha gestito la questione degli “impresentabili”. «Questa vicenda ha creato un vulnus sulla credibilità della commissione – dice il presidente dei deputati del Psi – Andranno accertate le responsabilità: avrei voluto farlo ieri ma non c’è stata la possibilità. Quella della Bindi è stata una gestione solitaria, sia nei modi che nei tempi, accompagnata da scelte di merito sui candidati». Bisogna dunque rivedere il codice deontologico? «Va capito perché in questa storia c’è stato un percorso che non ha funzionato, è innegabile che siano emerse delle contraddizioni – risponde il presidente dei deputati del Psi –. Nel codice, ad esempio, è scritto che i partiti non devono candidare rinviati a giudizio ovvero condannati in primo grado. Per me, che ho qualche rudimento di diritto, significa che se io sono stato assolto in primo grado o dichiarato prescritto non devo figurare nella lista. Invece la Bindi ha dato a questo aspetto una differente interpretazione. C’è una contraddizione sul piano letterale che va chiarita: così com’è scritto, il codice è quantomeno contraddittorio e ambiguo».

Twitter: @Antonio_Pitoni @GiorgioVelardi

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