Cultura

46 anni fa suo marito precipita dalla finestra della questura di Milano: oggi, Licia Pinelli racconta il “Dopo” in un libro

La diciottesima vittima della strage di piazza Fontana: chiamato in Questura per accertamenti nell’ambito delle indagini per l’attentato, Pino Pinelli è uscito cadavere dopo essere precipitato da una finestra del quarto piano. Per anni sua moglie ha taciuto, impegnata con una famiglia da mandare avanti, senza alcun aiuto da parte dello Stato. Ora, ha deciso di raccontare la vita "dopo" quanto accaduto quel 15 dicembre del 1969

di Valeria Gandus

Il “prima” e il “durante” l’aveva raccontato a caldo in una lunga intervista a Piero Scaramucci tradotta in uno struggente libro: Una storia quasi soltanto mia. Il “dopo” arriva solo oggi, a oltre 45 anni da quella notte – era il 15 dicembre 1969 – in cui suo marito precipitò da una finestra della Questura di Milano. E così, semplicemente, Dopo s’intitola il libriccino scritto da Licia Pinelli e pubblicato dalle edizioni dell’ Enciclopedia delle donne (enciclopediadelledonne.it). Giuseppe Pinelli, “ferroviere anarchico ucciso innocente nei locali della Questura di Milano” recita la lapide posta in piazza Fontana dagli “studenti e democratici milanesi”. Lo stesso Giuseppe Pinelli, sempre “innocente” ma solo “morto tragicamente” negli stessi locali, ricordato da un’altra lapide posta accanto alla prima dal Comune di Milano. Due verità per la stessa tragedia.

Pino Pinelli, marito di Licia e padre delle loro due figlie Silvia e Claudia. La diciottesima vittima della strage di piazza Fontana: chiamato in Questura per accertamenti nell’ambito delle indagini per l’attentato e uscito cadavere dopo essere precipitato da una finestra del quarto piano. Una morte per la quale nessuno ha pagato, perché non fu individuato alcun colpevole. Un lutto che Licia e le sue figlie hanno vissuto in tutti questi lunghi anni in un doloroso e dignitoso silenzio. Dopo quel libro-intervista, mandato frettolosamente al macero da Mondadori e ripubblicato da Feltrinelli solo nel 2009, Licia ha taciuto. Aveva chiesto la verità, non l’aveva ottenuta (poteva forse considerare verità quella consegnata da una sentenza che attribuiva la morte di Pino a un “malore attivo” che ne aveva chissà come favorito la caduta dal quarto piano della Questura?). Non c’era più modo, per lei, di rivendicare alcunché. C’era, invece, una famiglia da mandare avanti, senza nessun aiuto dallo Stato, cioè da chi aveva preso in consegna suo marito ma, nella migliore delle ipotesi, non aveva vegliato sulla sua incolumità. Nella peggiore, come recita la prima lapide, l’aveva ucciso. È quella vita “dopo” che Licia racconta restituendoci il ritratto, oltre che della sua famiglia, della comunità di amici, ma più spesso di perfetti sconosciuti, che seppero testimoniarle la loro vicinanza e offrirle aiuti concreti.

Una Milano solidale che si manifesta con le visite di studenti e attori, scrittori e persone comuni. C’è Enzo Jannacci che va a trovarla insieme all’inseparabile amico Beppe Viola emozionato e affettuoso. Ci sono i compagni anarchici di Pino che mandano lettere e soldi anche dall’America. C’è Giulio Maccacaro, professore di Biometria, fra i primi occuparsi dell’incidenza delle malattie professionali sui lavoratori dell’industria, che le offre il primo impiego come segretaria. Ci sono gli studenti per i quali batte a macchina le tesi di laurea, così come fa per gli autori del libro bianco La strage di Stato, che per primi smentiscono la pista anarchica e indicano nell’intreccio fra Servizi e neofascisti la matrice dell’attentato. C’è, soprattutto, l’amicizia – vera, profonda, duratura – con un’altra donna: diversissima da lei, lontana anni luce dal suo ambiente, eppure solidale con Licia fin dall’inizio, da quella notte in cui bussò alla sua porta per annunciarle quello che nessun rappresentante dello Stato aveva avuto la decenza di comunicarle, e cioè la morte di Pino. Quella donna era Camilla Cederna, giornalista dell’Espresso, penna sublime, indimenticabile per il felice connubio di serietà e leggerezza con cui affrontava anche gli argomenti più spinosi. “Con lei ricca, borghese, affascinante, piena di amici e conoscenze, potevamo parlare di qualsiasi cosa, soprattutto di libri e di piccole cose della quotidianità. Non cambiava mai, in nessuna circostanza, il suo modo di essere, di parlare (…) Con me si comportava come se ci conoscessimo da sempre”.

E fra tante nuove conoscenze di Licia ce n’è una sorprendente: Baba Bedi, il papà di Kabir- Sandokan, una guida spirituale grazie alla quale, scrive, “ho potuto attraversare alcuni momenti della mia vita riuscendo a superare, con emozioni meno forti che non la rabbia e la rivolta, i dolori e le delusioni personali a causa delle ingiustizie e dei troppi misteri che hanno avvolto (e ancora oggi persistono) gli ultimi 40, 50 anni della vita del nostro Paese”. Nel racconto del “dopo” non poteva mancare l’udienza del 2009 dal presidente Giorgio Napolitano: “In quell’occasione il Presidente disse cose che avrei voluto sentire molti anni prima (…) Mi sono sentita nel “mio “ Paese. Non era sempre stato così!”. Un piccolo risarcimento, un po’ di luce in quella “buia parentesi che non si è mai chiusa”.

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