Kalief Browder è finito nel carcere di Rikers Island, una piccolo isola nell’East River di New York, a 16 anni, per il furto di uno zaino. Era il 2010. Non è mai stato processato. Non gli è mai stata contestata alcuna accusa. Lui ha sempre negato di aver rubato. Dei mille giorni passati in carcere, Kalief ne ha trascorsi circa seicento in cella d’isolamento. A Rikers Island, nel febbraio 2012, ha cercato di uccidersi. Ha messo insieme delle lenzuola, si è stretto un capo attorno al collo e ha appeso l’altro a una feritoia della cella. Le guardie lo hanno salvato.

Una volta libero, le cose non sono andate meglio. Kalief ha cercato di impiccarsi ancora, nel novembre 2013, questa volta a una balaustra di casa, nel Bronx. E’ allora che la famiglia lo porta in un ospedale psichiatrico, il St. Barnabas Hospital, dove viene curato per una forma di grave paranoia. Un giorno prende la televisione di casa e la sbatte fuori dalla finestra. “Mi osserva”, dice al dottore che lo ha in cura.

E’ a questo punto della vita che Kalief Browder viene avvicinato da una giornalista del New Yorker, Jennifer Gonnerman, che raccoglie la sua storia. Il racconto che fa degli anni a Rikers Island è terribile. Kalief dice di essere stato vittima di violenze e abusi da parte delle guardie e degli altri detenuti. Non si tratta di un’invenzione. Il New Yorker ottiene un video, registrato dalle telecamere di sorveglianza: in un frammento si vede una guardia che sbatte a terra Kalief, ammanettato, lo blocca col suo corpo e lo riempie di pugni; in un altrofilmato Kalief, che in carcere non appartiene a nessuna gang, viene scalciato e picchiato da altri detenuti.

Dopo qualche esitazione, il ragazzo decide di far girare il video. “Per evitare che altri facciano la mia fine”, spiega. Il pezzo del New Yorker fa scandalo. Il sindaco Bill De Blasio abolisce l’isolamento per i detenuti con meno di 21 anni. La prigione di Rikers Island, intanto, è nell’occhio del ciclone. Una class action da parte di decine di detenuti, anche loro vittime di abusi e violenze da parte delle guardie, rischia di costare alla città di New York milioni di dollari. Fa notizia anche l’arbitrarietà della giustizia in città. Allo scorso marzo, c’erano nelle galere di New York almeno 400 detenuti in attesa, da almeno due anni, di essere accusati di qualcosa.

Dopo il pezzo del New Yorker, Kalief diventa un nome e un volto conosciuto. Il candidato repubblicano alla presidenza, Rand Paul, lo cita come esempio degli abusi del sistema giudiziario. Jay Z chiede di incontrarlo – e c’è una foto che ritrae Kalief abbracciato al suo idolo. Rosie O’Donnell lo invita in televisione, poi a cena e gli regala un MacBook Air. Le cose vanno meglio anche sul fronte salute. Kalief sta meglio, ritorna al Bronx Community College grazie all’anonima donazione di qualcuno che ha letto il pezzo del New Yorker.

Poi, di nuovo, qualcosa si rompe. Gli antipsicotici non fanno più effetto. Kalief confessa alla madre di sentirsi seguito, minacciato. Pestaggi, violenze, fantasmi del carcere lo perseguitano. Resta ore, racconta il cugino, seduto a un tavolo, lo sguardo fisso davanti a sé. La settimana scorsa l’avvocato che lo ha seguito in tutto l’itergiudiziario legge alcuni post di Kalief su Facebook. Lo contatta. “Tutto ok?” “Sì, tutto ok.” “Sei sicuro che vada tutto bene?” “Sì, sto bene, non preoccuparti”.

Sabato scorso Kalief ha tagliato le lenzuola del suo letto. Tante strisce, color senape, lunghe e strette. Le ha annodate insieme, le ha strette attorno al collo. Poi è andato in un’altra stanza, ha staccato il condizionatore d’aria dal muro, ci ha stretto l’altro capo del lenzuolo e si è lanciato nel vuoto attraverso il buco. La madre lo ha trovato penzolante nel vuoto. Kalief Browoder era nato nel 1993. E’ morto il 6 giugno 2015.

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