Sergio Marchionne ha un bel ribadire, sostenuto da Matteo Renzi, che il sindacato unico è l’obiettivo a cui guardare, tanto più che funziona “in tutti i sistemi del mondo, lo vedi in Germania, lo vedi in Usa, e non mi pare che siano regimi. Chi parla di regimi totalitari si sbaglia alla grande”. Vista da vicino, però, la realtà dei modelli di cui parla l’amministratore delegato di Fiat Chrysler non è così lineare come la dipingono lui e il premier. Innanzitutto, il sindacato unico, o meglio unitario, non si ritrova “in tutti i sistemi del mondo”, anzi. “In Europa oggi prevale un pluralismo sindacale – spiega Emilio Gabaglio, segretario generale della Confederazione europea dei sindacati dal 1991 al 2003 – E anche dove si parla di sindacato unitario, non esiste mai una sola organizzazione, ma un’organizzazione principale, dominante, egemone”. E poi va fatta qualche precisazione. In Germania, come in Austria e in Scandinavia, esistono sì sindacati unitari, ma al tempo stesso i lavoratori partecipano alla gestione dell’impresa. Negli Stati Uniti, come anche in Gran Bretagna, il salario minimo è stabilito dalla legge. Infine, ci sono sì dei Paesi dove la contrattazione collettiva è stata addirittura abbandonata, ma si tratta di una rinuncia che è stata imposta dalla Troika dei creditori internazionali Ue, Bce e Fondo Monetario in cambio degli aiuti. E’ il caso, per esempio, della Grecia, dove la questione è talmente delicata da essere in queste settimane sul tavolo delle estenuanti trattative per il nuovo salvataggio del Paese.

Il CASO TEDESCO DOVE I LAVORATORI PARTECIPANO ALLA GESTIONE DELL’IMPRESA -. Il primo Paese a essere tirato in ballo da Marchionne è stato la Germania. Qui, il contratto nazionale è praticamente inesistente, ma si trovano comunque tre livelli di contrattazione. Innanzitutto, ci sono gli accordi collettivi che si sviluppano per distretti, corrispondenti in sostanza ai Land tedeschi. Poi viene la contrattazione collettiva decentrata, cioè aziendale, dove la discussione avviene tra sindacati e impresa. Infine, ci sono i cosiddetti accordi aziendali di codefinizione, sottoscritti non più dalle sigle sindacali ma dai consigli di fabbrica, formati dai lavoratori.

“In Germania, tendenzialmente il sindacato è sempre stato unitario, sotto la guida della confederazione Dgb – spiega Raffaello Santagata, professore di Diritto del lavoro alla Seconda Università di Napoli – In particolare, nel settore dell’auto, Ig Metall si è affermato come unico sindacato”. Ma questo non significa che non esistano sigle minoritarie. E soprattutto, a fare da contrappeso al modello del sindacato unitario, c’è il sistema della partecipazione. Nelle imprese medio-grandi, è presente un consiglio di sorveglianza che decide le linee strategiche dell’azienda, costituito per metà dai rappresentanti della proprietà e per metà da quelli dei lavoratori. A questo organismo, si affianca il consiglio di fabbrica, formato interamente da dipendenti, che si occupa invece delle condizioni di lavoro e che discute gli accordi aziendali.

Nella vicina Austria, si ritrova un modello simile. Anche qui, abbiamo una confederazione dominante, la Österreichischer Gewerkschaftsbund, detta ÖGB. La contrattazione si svolge essenzialmente a livello nazionale, a seconda dei vari settori economici. Ma anche in questo caso, si ritrova la presenza di dipendenti, eletti dagli stessi lavoratori, all’interno dei consigli di sorveglianza delle aziende. Infine, sulla stessa linea si muovono Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia. Nei Paesi scandinavi, infatti, esiste un’organizzazione dominante per le tute blu, una per i colletti bianchi e una per i lavoratori con un titolo accademico. E, negli ultimi tempi, stanno emergendo anche sindacati alternativi di matrice cristiana. E anche nell’estremo Nord Europa, ritorna la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda. “Nei consigli di amministrazione delle società, c’è una minoranza fissa di rappresentanti eletti dai dipendenti, in un numero che varia da Paese a Paese”, spiega Paolo Borioni, ricercatore in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche presso l’Università di Copenaghen.

IL MODELLO ANGLOSASSONE: UNITARIO, MA CON SALARIO MINIMO – Marchionne, oltre alla Germania, citava anche gli Stati Uniti. Qui non esiste un contratto nazionale di categoria: è in vigore solo la contrattazione aziendale. Poi, da Stato a Stato, la storia cambia. Nella maggior parte dei casi, la presenza di una rappresentanza sindacale in fabbrica non è per nulla scontata, ma sono gli stessi lavoratori a scegliere se averla o meno. In caso di esito negativo, lo stabilimento rimane desindacalizzato e si continua attraverso la contrattazione individuale. Se invece il 50% + 1 dice sì, un referendum decide quale sindacato difenderà i dipendenti. Sarà solo una sigla: chi ottiene la maggioranza, avrà la rappresentanza esclusiva dei dipendenti, gli altri sindacati sono fuori. In questo caso, non si ritrova la partecipazione dei lavoratori alle sorti dell’azienda, ma il contrappeso è dato dalla legge che fissa un salario minimo. Attualmente, la quota stabilita a livello federale è pari a 7,75 dollari l’ora e potrà cambiare solo con un nuovo provvedimento del Congresso. Poi, ogni singolo Stato è libero di decidere un’altra cifra.

Tornando in Europa, il modello inglese non è così diverso. Qui, esiste un florilegio di sindacati di categoria, circa settanta, ma tutti raccolti sotto il grande ombrello della Trades union congress (Tuc). Anche in questo caso, la contrattazione avviene sostanzialmente sul piano aziendale. E anche qui, si ritrova il salario minimo imposto per legge, introdotto nel 1999 dal premier laburista Tony Blair.

IN GRECIA HA DECISO LA TROIKA. “MA HA IMPOVERITO I SALARI” –  Per avere accesso agli aiuti da parte di Unione europea, Fondo monetario internazionale e Banca centrale europea, nel 2012 la Grecia si è adeguata alle richieste della Troika e ha di fatto cancellato la contrattazione collettiva e decurtato i livelli di salario minimo. Ora, nel braccio di ferro con i creditori, il governo Tsipras punta a rivedere, almeno in parte, queste misure. “Situazioni simili si sono verificate negli altri Paesi sotto l’attenzione della Troika, Irlanda e Portogallo – spiega Salvo Leonardi, esperto di relazioni industriali dell’associazione Bruno Trentin, centro studi nazionale della Cgil – Queste misure hanno avuto l’effetto di impoverire i salari, ridurre il potere d’acquisto della popolazione e marginalizzare i sindacati“.

IL SOGNO DI MARCHIONNE: UN SOLO SINDACATO IN FCA – Ora, se importare modelli stranieri appare impossibile, resta da capire cosa intenda portare in Italia l’ad di Fca. “Marchionne ha in mente l’esempio americano, dove il sindacato maggioritario è l’unico ammesso in azienda – ragiona Umberto Romagnoli, professore emerito di diritto del lavoro all’Università di Bologna – E, nei fatti, in Fca ha già realizzato il sindacato unico. Le sigle firmatarie dell’accordo Fiat funzionano come un solo uomo”. Non a caso, il sindacato Fismic ha lanciato la proposta, subito raccolta dalla Fim Cisl, di formare un unico fronte sindacale all’interno di Fca. Inoltre, il nuovo contratto Fiat prevede che gli scioperi non possano più essere indetti da un singolo sindacato: dovrà essere la maggioranza della rappresentanza sindacale aziendale ad avviare le procedure. Questa regola, va ricordato, non si applica alla Fiom, che non ha firmato il contratto Fca.

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