Un fatto strano si sta verificando nei tribunali del lavoro del nostro Paese: a fronte del forte aumento di richieste di decreti ingiuntivi relativi a mensilità arretrate non pagate (procedimenti destinati a sfociare in pignoramenti negativi e istanze di fallimento) si registra una flessione delle cause relative a licenziamenti o provvedimenti disciplinari ingiustificati, demansionamenti, molestie o mobbing, rivendicazioni di qualifiche superiori o di qualsiasi altro diritto.

La domanda sorge spontanea: siamo in presenza di un diffuso clima di legalità oppure i diritti continuano ad essere violati esattamente come prima (ma i lavoratori preferiscono non ricorrere al giudice)?

La verità, purtroppo, è “la seconda che ho detto”: le ragioni di tale fenomeno sono complesse e tra loro collegate da quello che appare un inquietante disegno che va a colpire sempre la stessa parte: il lavoratore.

Una di queste ragioni è certamente da ricondursi ai recenti interventi legislativi di questo secolo che hanno, oggettivamente, ridotto le tutele del lavoro dipendente in base alla concezione per cui la ripresa dell’economia e lo sviluppo possano darsi solo con una manodopera demansionata, sottopagata, videosorvegliata e facilmente licenziabile senza la sgradevole interferenza della magistratura.

L’altra è quella data da misure varie per disincentivare il contenzioso giudiziario.

Tra queste una “piccola” riforma ad una norma del codice di procedura civile passata quasi inosservata, in vigore dal dicembre 2014,  che rende obbligatorio per il giudice condannare chi perde la causa a pagare le spese legali, oltre che del proprio avvocato, anche di quello dell’avversario.

La cosa potrebbe apparire normale, e persino giusta, se non si riflettesse su una circostanza:  nel rapporto di lavoro le parti non sono in posizione di parità, e non solo dal punto di vista economico; infatti, con l’esercizio dei poteri gerarchici e disciplinari il datore in pratica è autorizzato a farsi giustizia da sé, e il dipendente per reagire a quella che ritiene  un’ingiustizia subita non ha altra strada che ricorrere al giudice; sempre il dipendente, in questo caso, deve pagare tra l’altro, una specie di tassa  chiamata “contributo unificato”, il cui costo è variabile in ragione del valore della domanda, e dal quale sono esenti solo coloro che hanno un modesto reddito familiare.

Fino al dicembre 2014 il giudice, anche se dava torto al lavoratore, poteva in certi casi “compensare le spese”, stabilire, cioè, che ognuno pagasse il proprio avvocato. Oggi non può più farlo, all’infuori di ipotesi assolutamente straordinarie, per cui il lavoratore che intraprende una causa dall’esito incerto (ma tutte le cause sono dall’esito incerto!) deve mettere in conto di pagare migliaia di euro in caso di sconfitta. E a quel punto – magari – preferisce tenersi l’ingiustizia.

Un meccanismo apparentemente ragionevole (chi perde paga) produce un effetto aberrante, perché legittima l’impunibilità di una delle parti, quella a cui la legge attribuisce già una posizione di vantaggio sul piano dell’esercizio dei poteri senza fornire adeguate garanzie di compensazione.

Né potrebbe sostenersi che se il giudice potesse, come avveniva prima, compensare le spese a favore del lavoratore soccombente, si verificherebbe un’ingiustizia a carico del datore.

A parte il fatto che il magistrato avrebbe tutti i poteri per valutare le condizioni soggettive anche del datore (e quindi, ad esempio la natura di piccolo imprenditore, o il suo stato di difficoltà economica) la possibilità di trattare in modo difforme situazioni disuguali corrisponde al principio di uguaglianza sostanziale garantito dalla nostra Costituzione (articolo 3 secondo comma). E in tal modo si attuerebbe un altro principio costituzionale: quello che intende garantire l’accesso alla giustizia a tutti i cittadini (articolo 24).

Una giustizia che rende eccessivamente onerosa la possibilità di tutela processuale dei diritti non può ritenersi tale, e male farebbe questo Governo a farsi vanto di un risultato del genere: ai magistrati, ai quali le  nuove leggi sottraggono, progressivamente,  i poteri di effettuare valutazioni sulle scelte economiche e organizzative delle imprese e persino valutazioni di proporzionalità sull’esercizio del potere disciplinare (per cui, con il Jobs Act, un licenziamento per motivi pretestuosi e futili non viene più punito con la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro) dovrebbe essere lasciata, quantomeno, la possibilità di non aggravare con costi eccessivi l’esito di una causa persa.

In questo quadro– che rischia di allontanare definitivamente dall’accesso alla tutela giudiziaria cittadini che già hanno subito, nel corso di un rapporto giuridico non paritario, sostanziali ingiustizie – sarà necessaria ogni iniziativa utile, cercando di coinvolgere la Corte Costituzionale o la stessa Cedu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), per salvaguardare quegli interessi di rilevanza costituzionale violati che la norma processuale dovrebbe invece garantire.

A meno che il legislatore non intervenga tempestivamente a porre riparo a questa ingiustizia, attraverso l’introduzione del principio della compensazione delle spese in casi particolari nonché attraverso l’espressa esclusione della condanna alle spese per la parte che presenti scarse possibilità reddituali (a meno che questa non abbia presentato una domanda macroscopicamente infondata, ovvero una lite temeraria).

Una proposta di questo tipo risulta già fatta propria dall’Organizzazione Unitaria dell’Avvocatura –Oua: se recepita dal legislatore contribuirebbe a rendere un po’ più effettiva e giusta la giustizia.

Di Alberto PiccininiSono avvocato giuslavorista a Bologna e ho sempre svolto la professione, come suol dirsi, da una parte sola: dalla parte dei lavoratori. Ho seguito, con il collegio di difesa Fiom, il contenzioso contro la Fiat e il licenziamento dei tre operai di MelfiHo scritto alcuni articoli in riviste specializzate e qualche libro in materia di licenziamenti individuali e collettivi e di comportamento antisindacale (oltre a un paio di romanzi e una raccolta di racconti)

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