Nel film Leviathan di Andrey Zvyaginstev (regista russo di grande talento, vincitore del Leone d’oro nel 2003 con Il Ritorno) un ritratto di Vladimir Putin sovrasta la scrivania del sindaco di Tiriberka, sulla costa del mare di Barents, molto lontano da qui.

Se Hobbes, nel suo di Leviatano, argomenta il passaggio dallo stato di natura allo stato civile come il sacrificio dell’alienazione di quasi tutti i diritti naturali al sovrano assoluto, il regista russo ne esplicita le contemporanee conseguenze, le più estreme, le più crude e perverse. Filma la storia in un luogo dove la natura esterna si dispiega magnificente e al tempo stesso testimonia, attraverso una vicenda circoscritta a vicende umane, di come lo stato civile acquisito in quel remoto luogo si prende ‘cura’ dei propri cittadini, con particolare attenzione a coloro con l’attitudine ad alzare troppo la testa.

Lo scacco dello stato di natura è che per vivere è necessario, per l’appunto, alienarsi quel tanto (in molti casi tantissimo) che serve a condurre una vita sociale fatta di relazioni cooperative e di senso d’appartenenza. Se poi a ciò a cui apparteniamo comincia ad essere maleodorante per molti passa in secondo piano, pur di starci dentro.

I potenti e potentucoli delle nostri parti gongolano nel vedere il ritratto di Putin sopra alla testa del boss politico locale che prima con le buone e poi con le molto cattive riporta a buoni propositi il protagonista che si oppone all’esproprio di un proprio terreno. Che a lui piaccia o no, quel terreno sarà comunque espropriato e destinato alla speculazione (non ho potuto fare a meno di pensare alla Tav in Val Susa).

Pensano, i potenti e i potentucoli di casa nostra, che la storia non li riguardi: e invece il film di Zvyaginstev andrebbe ponderato bene anche da queste parti. E’ un film pedagogico, trasversale, di enorme potenza simbolica, e andrebbe proiettato nelle scuole e nelle università. Già, perché in Italia i piccoli grandi boss a norma di legge non sono pochi e sfortunatamente per i loro cittadini sono molto meno rozzi, meno grossolani ed evidenti di quelli descritti nel film. Anzi scrivono di libertà e diritti, presenziano a convegni dove parlano di giustizia, merito, relazioni cooperative e collettivo benessere, tutte cose che a detta loro dipenderebbero purtroppo e sempre da qualcun altro.

Poi però, spente le luci, impartiscono benedizioni alla loro personale cerchia e sono disposti a tutto pur di mantenere rendite di posizione per sé e propri incensanti adepti.

La figura del potente, tronfio e al tempo stesso discreto e fedele agli ideali dell’umanesimo, ma perentorio e decisionista nell’imporre il suo poco (quello è il più patetico) o molto potere non tramonta, affascina e seduce e il suo appeal è un modello irresistibile.

Pensiamo a puro titolo d’esempio alla figura del nuovo Dirigente scolastico secondo i poco buoni propositi della “buona scuola” del governo Renzi: spetterà al dirigente “(…) la gestione dell’organico dell’autonomia (funzionale). Potrà chiamare i docenti in base alle esigenze dell’ampliamento dell’offerta formativa della scuola e potrà assegnare supplenze. Indiscrezioni vorrebbero che la facoltà da parte del dirigente di “chiamare” i docenti venga estesa, in un’ultima stesura della riforma, anche ai docenti a partire dalle prossime assunzioni concorsuali. (…)” (fonte: Orizzontescuola.it) e via di questo passo con possibilità di nomina di mentori e staff di gradimento e poteri che toccheranno da vicino gli stipendi e il lavoro dei docenti. E delle graduatorie ci si potrà fare un baffo, pare infatti siano destinate a sparire.

Il plastico, furbo e sottile modello dei baroni e delle baronesse dell’Università pubblica italiana viene così lievemente esportato nella Scuola pubblica, dove il dirigente potrà a sua volta contare, c’è da giurarci, su un considerevole numero di lacchè. In fondo, perché sottomettere qualcuno se già si sottomette benissimo da solo? Chi striscia, si sa, non inciampa.

Si compie così naturalmente la sottomissione convenzionale o politica descritta da Hobbes nel pactum subiectonis, ben comprensibile in una organizzazione giusta e meritocratica per davvero, squallida in un ordine fondato su un meccanismo soltanto apparentemente egualitario ma col trucco e soggetto all’arbitrarietà. Eh già, ma è il costo della vanità, dell’ambizione o, quel che è più crudele, il costo del campare.

E noi, guardando Leviathan, così lontani da Tiriberka, potremo continuare a sentirci distanti da quel minaccioso ritratto di Putin che troneggia sopra la scrivania del sindaco, emblema di quel potere degenerato e del suo codazzo di villani complici dalle maniere forti.

Potremo indignarci, noi così fini, così democratici e discreti di quel mondo che sappiamo scorgere così bene quando riguarda gli altri. Potremo continuare a rassicurarci su quanto sono lontane le miserie descritte ed evocate dallo splendido film di Zvyaginstev, senza accorgerci che invece quell’altrove racconta molto delle nostre oliate, metamorfiche, raffinate e miserabili dinamiche di cui è ancora ben impregnato il nostro sistema di potere.

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