Per i familiari degli operai morti nel rogo della ThyssenKrupp del 6 dicembre 2007 le condanne emesse nel processo d’appello bis non bastano. Dopo quasi otto anni il loro dolore è ancora forte. Magliette nere con le facce dei loro cari, le foto piazzate sui banchi dell’aula 6, manifestano il loro scontento per le pene decise dalla Corte d’appello d’assise di Torino appena i giudici lasciano l’aula. “Non è solo il nostro processo a essere castigato, ma sono tutti i processi a essere castigati. Non vogliamo vendetta, vogliamo giustizia – afferma fuori dall’aula Laura Rodinò, sorella di Rosario Rodinò, morto all’età di 27 anni -. Vivremo nove anni di galera perché dobbiamo aspettare ancora un anno per vedere la fine. Questi invece non si fermeranno qui, ricorreranno ancora in Cassazione”. I difensori, infatti, potrebbero ricorrere ancora una volta alla Suprema Corte, nonostante nel 2014 abbia confermato la piena responsabilità dei sei manager chiedendo solo di riformulare le accuse (omicidio colposo, incendio colposo e omissione di cautele) ricalcolando le pene.

“Io sono fermo alla prima richiesta di omicidio volontario con dolo eventuale perché c’erano tutti i presupposti”, dice il deputato Pd Antonio Boccuzzi, l’ex operaio della ThyssenKrupp sopravvissuto al rogo di quella notte. In primo grado la Corte d’assise aveva accolto le richieste dei pm Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso e aveva condannato l’amministratore delegato a sedici anni e sei mesi, una pena elevata e molto contestata dagli imprenditori. In quel processo di primo grado furono elevate pure le condanne dei suoi sottoposti, i dirigenti Pucci, Priegnitz, Salerno e Cafueri, per i quali la pena fu di tredici anni e sei mesi, mentre per Moroni la pena era di dieci anni e dieci mesi. “Da allora c’è stata una riduzione delle pene fino ad arrivare a nove anni e otto mesi di Espenhehn oggi. Eppure prima e dopo ci sono state condanne per omicidio volontario con dolo eventuale”, continua l’onorevole. Le condizioni nello stabilimento torinese erano molto a rischio. Gli incendi sulla linea 5, dove si innescò il rogo, erano frequenti: “I giudici hanno trattato il caso come un banale incidente sul lavoro, non hanno ancora capito che mio fratello e gli altri colleghi sono morti per fare i vigili del fuoco e non perché stavano lavorando. Ogni giorno erano costretti a buttarsi nelle fiamme – racconta la Rodinò -. Ci sentiamo discriminati”.

“Nessuno deve più vivere quest’esperienza. Non ho potuto dare un ultimo saluto a mio nipote, ma ho voluto vederlo. Ho gestito tutta la situazione a lungo, ma poi sono crollato – spiega Carlo Cascino, zio di Rosario -. Sono scene che nessuno deve più vedere mai più”. Adesso alcuni rimpiangono l’offerta di risarcimento accettata anni fa: “Quando abbiamo firmato quell’accordo eravamo confusi e sotto choc. Se potessimo tornare indietro oggi non rifaremmo quella scelta”, affermano alcuni familiari della vittima ventisettenne.

Molti parenti delle vittime vorrebbero vedere gli imputati condannati andare in galera: “Devono preparare le valigie e andare in carcere, mentre mio fratello è al cimitero”, ripete Laura Rodinò. Tuttavia, prima che la pena venga applicata, bisognerà aspettare l’ultimo eventuale vaglio della Cassazione che poi dovrà mandare la sentenza alla Procura generale di Torino che disporrà gli arresti. Ancora troppo per le famiglie.

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