Ventitré anni fa morirono a Capaci sull’autostrada che dall’aeroporto porta a Palermo: Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Francesca Morvillo, Vito Schifani e Giovanni Falcone. L’orologio della moglie del giudice si fermò alle 18,08. Un’ora della nostra triste storia. Il magistrato Falcone, uno come noi, con i problemi e i fallimenti di tutti, serviva lealmente lo Stato. A Capaci perdette l’ultima battaglia, sconfitto nella carriera con i sospetti e le rivalità non aveva dalla sua la forza del potere, mille chili di esplosivo lo aspettavano sull’A29. Per i suoi nemici il 23 maggio 1992 fu il giorno giusto.

Palermo chiama l’Italia per ricordare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che morirà insieme alla scorta: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosna, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina, cinquantatré giorni dopo nella strage di via D’Amelio.

Nell’aula bunker di Palermo, con quarantamila studenti alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la cerimonia in onore dei due magistrati e di tutti i caduti per mano della mafia per la prima volta in collegamento con sei piazze: Milano, Firenze, Napoli, Rosarno, Corleone e Gattatico dalla casa dei sette fratelli Cervi, dove vi saranno alcuni parenti dei caduti per mano di Cosa Nostra: Nando figlio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa; Franco figlio di Pio La Torre, Margherita figlia di Barbara Asta e sorella di Giuseppe e Salvatore morti nell’attentato al giudice Carlo Palermo, lo stesso Presidente della Repubblica fratello di Piersanti Mattarella.

In Sicilia si combattono da sempre due guerre: con i mitra e con le chiacchiere. Da quel giorno non basta ricordare con un minuto di silenzio, la gente vuole solo i fatti, ma la politica congela, seppellisce, allontana, isola allora come oggi, è quello che sta accadendo ai magistrati che a Palermo stanno portando avanti il processo sulla trattativa Stato-mafia. Quella maledetta solitudine che accompagnò l’ultima parte della vita di Falcone e Borsellino, oggi avvolge un altro magistrato condannato a morte da Totò Riina: Nino Di Matteo, colpevole per il boss dei boss di inseguire la verità e la giustizia, per il potere romano di aver portato sullo stesso banco degli imputati uomini delle istituzioni, politici e i boss di Cosa nostra.

Una parte di responsabilità ce l’ha l’informazione, che avrebbe la forza di rompere questa solitudine, ma da anni è troppo superficiale, alla mordi e fuggi, da non riuscire a far passare nell’immaginario collettivo la realtà di una criminalità organizzata che dalla Sicilia, Calabria, Campania ha invaso tutta l’Italia, prima infiltrandosi poi impadronendosi della gestione degli affari. Un’informazione che non approfondisce, che non racconta il lavoro dei giudici, che non denuncia il governo che non fa una vera lotta alla mafia e le istituzioni intervengono sempre tardi: o dopo la tragedia o dopo lo scandalo.

Il 23 maggio rappresenta anche la nostra coscienza, ci ricorda che tutti quelli che hanno guardato dentro a Cosa nostra, senza indulgenze, magistrati, poliziotti, cittadini che hanno detto no al pizzo, hanno pagato per il loro coraggio.

Troppi funerali e troppe parole inutili abbiamo ascoltato dalle istituzioni di fronte alle bare “eccellenti”.”

Se durante il ricordo di Giovanni Falcone il presidente Mattarella esprimesse stima e incoraggiasse il lavoro dei magistrati come Di Matteo sarebbe un segnale importante e significherebbe che il sacrificio di Falcone, Borsellino, Chinnici, Scaglione,Terranova, Costa, Ciaccio Montalto, Caccia, Giacomelli, Ferlaino, Scopelliti, Saetta, Livantino, Scopelliti, giudici, forze dell’ordine, politici, giornalisti, cittadini e di quanti sono caduti per mano delle mafie non è stato inutile e quel biglietto che è appeso all’albero di via Notarbartolo, le cui parole ci emozionano: “Qui è rinata la speranza dei palermitani onesti e dei loro figli”, dice la verità.

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