Il ddl per la nuova Rai attende quieto che passino le elezioni regionali nel mentre che si passa il tempo polemizzando sulla “governance”, e cioè sul grado di contrattazione particolaristica cui potranno essere o meno sottoposte le scelte aziendali, a partire dalla nomina dei dirigenti di ogni ordine e grado. Ma la materia più sostanziosa è altrove.

La “governance” di un tempo garantiva il pluralismo si chiamava lottizzazione e il capo azienda, anche quando ne capitava uno arrogante, era per lo più un re travicello. Alla “missione” del cosiddetto pluralismo si è aggiunta con l’arrivo del duopolio quella di congelare la Rai in funzione del bilancio di Mediaset. E ancora oggi la Rai, come la farfalla della vispa Teresa, è lì che sta infilzata. Oggi il contesto è cambiato e la Riforma, reimpostando contratto di servizio e canone, dovrebbe riconciliare l‘azienda con la realtà.

Intanto perché il “pluralismo”, ragione delle zuffe sulla governance, è ormai ben radicato nella molteplicità di piattaforme e imprese. Sicché più che plurale la Rai dovrà cercare di essere “significativa”, e non schiacciandosi su una fazione, come può permettersi la privata Fox in Usa, ma essendo Servizio Pubblico identificandosi ” (BBC insegna) con la “qualità” (non, questo è sicuro, con il dilagare di Tg ad ogni ora su ogni canale). In secondo luogo perché tutto il sistema industriale dell’audiovisivo, per non perire, deve internazionalizzarsi, e potrà farlo solo dietro la spinta e la guida editoriale di una Rai che alzi lo sguardo al mondo. Con la fiction? Con i film? Con i format? Con le inchieste? Con i video giochi? Probabilmente con di tutto un po’. Ma intanto si sa che il passaggio è talmente arduo che la Rai deve almeno riceverne l’esplicito mandato insieme con le adeguate risorse finanziarie.

A spianare la strada verso il nuovo (o a levare allibi alla perpetuazione dell’antico) c’è poi il venir meno, coi nuovi rapporti di forza in Parlamento, con il partito-Nazione di Renzi e con la crisi di Forza Italia, dei presupposti politici di esistenza del duopolio (Rai congelata, concorrenza spiazzata, monopsonio verso i fornitori, monopolio verso gli investitori). Oggi Mediaset è divenuta una azienda come le altre: da rispettare, ma non da obbligatoriamente privilegiare.

E non per nulla Urbano Cairo proprio ora è uscito allo scoperto con un paio di interviste siluro contro il vecchio sistema. Il primo diretto su Mediaset additando lo squilibrio fra il pubblico raccolto (circa il 34%) e i soldi rastrellati (praticamente il doppio). Una iniquità ben nota, ma finora sottaciuta nell’ambiente. Il secondo siluro diretto alla Rai che praticherebbe super sconti sui prezzi degli spot, finanziandoli, va da sé, con gli introiti della sovvenzione pubblica grazie, altro dato rimosso dalle polemiche antiche, alla confusione di soldi pubblici e ricavi pubblicitari nella stessa azienda. Insomma, finché il duopolio era rampante tutti zitti e mosca. Ma ora si aprono le crepe da cui traspaiono le questioni vere. Altro che il carattere più o meno forzuto del capo azienda. Del resto si sa che le nomine saranno, come sempre, consequentia rerum.

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