L’America agli estremi: Gus Van Sant bocciato senza appello e Todd Haynes promosso a pieni voti. Sulla carta tra i più attesi al 68° Festival di Cannes, finalmente i concorrenti dagli States hanno svelato le loro carte proponendosi ai connazionali presidenti di giuria Ethan & Joel Coen. Se ieri è stata la giornata della delusione per The Sea of Trees, oggi è quella della celebrazione di Carol, con una Cate Blanchett da Palma immediata e da Oscar prossimamente.

Entrambi virano al melodramma, l’uno incentrato sull’elaborazione del lutto e con costanti riferimenti alla morte, l’altro su una storia d’amore lesbo nella New York dei primi anni ’50. Ma, come asseriva ieri Nanni Moretti (che continua il suo trionfo critico sulla Croisette) qualunque argomento si può prestare a fare un buono come un cattivo film. I due registi (amici) residenti a Portland hanno applicato la regola d’oro. Dispiace che il talentuoso cineasta di Paranoid Park e Milk sia “inciampato” in un cine-racconto eccessivo e sgangherato, con un Matthew McConaughey “troppo preso” da un ruolo che lo fa sbandare. La narrazione di The Sea of Trees va pertanto a intrappolarsi (suicidandosi) nella temibile Foresta Aokigahara nel cuore del Giappone, ove il protagonista americano si reca intenzionato a togliersi la vita. La critica mondiale sulla Croisette ha crocifisso la pellicola di Gus Van Sant come mai era successo per un suo film: il peggiore ad oggi, è la sintesi.

Tra i suoi migliori è invece quello uscito dal genio creativo del connazionale Haynes, che a Cannes era venuto nel 1998 in concorso con lo psichedelico Velvet Goldmine. Ispirato al romanzo di Patricia Highsmith Il prezzo del sale, all’indice nel 1952, Carol non ha un difetto: rigoroso, classico nel genere ma dirompente dal suo interno, capace con la giusta “freddezza” di mostrare il sapore torbido di quegli anni americani. Siamo alla vigilia della presidenza Eisenhower e a pochi anni dai “ribelli senza causa” immortalati da Nick Ray, ma non ancora dentro al melò alla Douglas Sirk e dunque sfalsati (anche esteticamente) da quel suo altro capolavoro che porta il titolo di Lontano dal paradiso (2002).

L’America post war sta cambiando ma ancora inconsapevolmente, i giovani smarriscono l’identità ma ancora non la stanno cercando come invece accadrà negli anni a venire, e basta una frase della giovane Therese (una magnifica Rooney Mara) a farlo capire: “Come posso accettare di sposarti se non so neppure cosa prenderò per cena?”. E’ di lei che la benestante 40enne Carol (Blanchett) si innamora perdutamente, della sua purezza ma anche di quella testardaggine da “new American girl” che vuole cercarsi un lavoro creativo, mettendosi in gioco.

Therese la ricambia istantaneamente: le due donne avviano una relazione d’amore autentica ma è il torbido attorno a loro ad offuscarla. “E’ il primo romanzo gay con un happy ending degli anni ‘50” consola Cate Blanchett, che ha creduto fermamente in questo film (da lei coprodotto) rimasto in fase di sceneggiatura nei cassetti di Hollywood per 15 anni. Chissà perché. “Il dibattito sull’amore gay è ancora attuale, non servo io a dirvelo – incalza la due volte premio Oscar – pensate ci sono ancora troppi Paesi nel mondo che dichiarano illegale l’omosessualità”. È stata la Blanchett a suggerire la regia di Haynes, con cui già aveva lavorato in I’m not there nei panni di Bob Dylan. E la sua scelta è stata perfetta: in pochi meglio di lui sanno restituire lo Zeitgeist di quegli anni fondativi del suo Paese. Osannato alla proiezione stampa, stasera Carol avrà il suo trionfo con il pubblico in un Galà che si preannuncia stellare.

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