Fra le composizioni post-industriali degli spazi della Fondazione Prada di Milano, il dialogo fra tradizioni del passato e sguardi al futuro non caratterizza soltanto il lavoro architettonico di Rem Koolhaas, da decenni straordinario “mediatore” di epoche e stili, ma sembra essere la costante di tutti i luoghi della Fondazione, a partire dal bar Luce, realizzato da Wes Anderson, che può vantare tra le fonti iconografiche, capolavori del cinema neorealista come i “milanesi” Rocco e i suoi fratelli e Miracolo a Milano.

Ma in modo particolare è nella piccola e vellutata, in tutti i sensi possibili, sala cinematografica che i punti di contatto fra epoche lontane si intrecciano, a partire dal foyer del cinema che accoglie un fluorescente fregio in ceramica di Lucio Fontana, realizzato nel 1948 per il Cinema Arlecchino di Milano, in nome della rinascita culturale e artistica della Milano del dopoguerra, e ricollocato qui con lo stesso auspicio di rinnovamento. Analogie, voci che dialogano a distanza, è in queste corrispondenze che si apre lo schermo della sala che ospita, fino al 25 luglio, un progetto dal titolo Roman Polanski: My inspirations, breve ma intenso documentario di venti minuti realizzato appositamente per la Fondazione.

Fra nostalgie e liberazione, Roman Polanski rivive le emozioni dei film che hanno segnato il suo immaginario nel buio della sala, ricordando stimoli ed emozioni che hanno contribuito a forgiare la sua identità di regista alieno alla sua epoca, per modalità e riferimenti. Pur sviluppando la sua sferzante poetica agli inizi degli anni ’60 in epoca di pura sperimentazione Nouvelle Vague, Polanski ha operato in maniera totalmente diversa sulla classicità del cinema, in una variante rispettosa ma ossessiva e ossessionata dai rapporti di potere, dallo spazio chiuso, dalla fedeltà maniacale alle tre unità del racconto. Non è un caso che nel documentario, diretto da Laurent Bouzereau, la mente parlante del regista polacco ritorni dunque agli anni difficili e giovanili del dopoguerra a Cracovia, al ricordo di pellicole oscure e claustrofobiche come uno dei capolavori di David Lean, Grandi speranze tratto da Charles Dickens, autore anche dell’Oliver Twist che Polanski adatterà molti anni dopo.

Claustrofobia, realismo scarno e crudeltà ma anche set spettrali, opulenti e barocchi, in tutto il cinema di Polanski è sempre presente questa tensione fra il minimalismo della psicosi e l’abbondanza dell’ossessione. La clausura del cinema britannico convive, nelle ispirazioni polanskiane, con la purezza di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica e con l’estro, anche se ancora in bianco e nero, del Federico Fellini di 8 e ½, adorato per la sua essenza di opera “fatta per noi registi più che per il pubblico”, film più volte omaggiato anche per la sua disinvoltura narrativa, qualità lungamente cercata da Polanski soprattutto nel suo periodo “americano”.

Il duello di cappa e spada, ma anche esistenzialista, dell’Amleto di Laurence Olivier, lo stupore infantile di fronte all’ennesima visione di Quarto potere di Orson Welles, la crudele umanità delle pagine di Uomini e topi di John Steinbeck, adattate da Lewis Milestone, le fonti di ispirazione insomma non conoscono limiti di luogo e genere ma si interrompono bruscamente non appena il giovane studente di cinema realizzerà Il coltello nell’acqua nel 1962. La grammatica di Roman Polanski è nata, il suo discorso non ha più bisogno di insegnanti di dizione e fino al 25 luglio sarà possibile rivedere, oltre ai capolavori del regista polacco, anche questi preziosi semi di celluloide, capaci di far germogliare uno sguardo e una poetica ancora oggi irraggiungibile, con la speranza di riscoprire classici dimenticati, uno per tutti Fuggiasco di Carol Reed, e di intrigare altri registi a compiere lo stesso viaggio a ritroso.

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