Lontani quanto volete, ma i dimostranti neri negli Usa, i giovani foreign fighters europei che si uniscono all’Isis e i black bloc che fanno la guerriglia a Milano, sono i nostri figli.

Baltimora, scontri nel giorno dei funerali di Freddie Gray

E non basterà che l’ingenuo ragazzo vestito di nero che si è fatto riprendere a Milano venga definito dal padre “un pirla”. Come non basterà che la mamma coraggio americana riempia di sberle il figlio davanti alle telecamere di mezzo mondo. Non basterà neanche scovare gli avventurieri da strapazzo prima che facciano malestri unendosi alle brigate nere del califfato. Almeno non se rinunciamo a un’analisi autocritica. Perché i nostri figli spaccano tutto, rischiano la vita, si convertono, manifestano violentemente? Perché il mondo in cui li abbiamo cresciuti lo trovano così deprecabile, malfatto, da rifiutare? Un sistema in crisi, odiato da tanti, non basta a far sorgere delle domande?

Nel XV e XVI secolo la grande flotta islamica che insidiava l’Occidente e giunse a sfidarlo a Preveza, Malta e Lepanto era quasi sempre capitanata da un Capudanpashà cristiano convertito. Ariadeno Barbarossa, basta citare lui, ma non si contano, in tutti i ruoli della catena di comando, le conversioni dalla cristianità all’Islam. E neppure una nella direzione opposta. Era comprensibile: la società bloccata dell’Occidente, ben lontana ancora dalla nascita di una borghesia che dinamizzasse la società, impediva qualunque evoluzione dell’individuo. Se nascevi servo morivi servo, se nascevi cadetto morivi militare o prete, se nascevi nobile morivi nobile. Impossibile cambiare il proprio destino, funestato tra l’altro da inquisizione, tasse, guerre, fame, peste, superstizione.

Lo splendore culturale di quegli anni non deve trarre in inganno. Conosciamo sempre la storia dei grandi, ma il popolo se la passava assai male, in una società incastrata e ingiusta, che ci sono voluti secoli per far evolvere verso qualche libertà e giustizia. L’Islam era una religione relativamente giovane, e il suo mondo era molto più libero. Barbarossa era un avventuriero da quattro soldi, ma poté scalare col proprio valore tutta la gerarchia fino a diventare l’ammiraglio in capo di un’immensa flotta. Bravura, coraggio, intraprendenza valevano ancora qualcosa in mare. A bordo delle galere ottomane o della Barberia, come in terraferma, l’omosessualità era tollerata, le etnie e i popoli sostanzialmente garantiti, il culto delle diverse religioni consentito. Gli ebrei cacciati dagli spagnoli nel 1492 vennero accolti e protetti da Bayezid II, il Gran Sultano di Costantinopoli. In quel mondo, per cercare un posto, qualche fortuna, una vita migliore, o anche solo per salvarsi la vita, non era così strano passare dall’altra parte. Venire di qua, non aveva alcun senso.

Oggi come ieri? Che accade ai ragazzi cresciuti nei nostri licei, nelle nostre università, nati in Occidente, che vivono nelle città americane che tanto idealizzano media e politici? Ho guardato le immagini dei disordini a Milano. Tanti, tantissimi giovani indossano occhiali da vista, niente di più facile che fossero studenti. Chi li ha visti da vicino e ha parlato con loro riferisce di ragazzi non ignoranti, a volte preparati, universitari e non sottoproletari urbani.

Cos’ha questo nostro Occidente? Cosa cova la nostra società? Perché ha generato questo autunno, questo diffuso scontento? Perché nessuno si domanda cosa abbiamo sbagliato, a cosa ci ha portati l’egemonia del denaro, il mercato sfrenato, l’oligarchia finanziaria, l’invasione tambureggiante di media fuori da qualunque controllo, il lavoro asfissiante? Chi sta peggio di tutti, i migranti, vogliono venire da noi a cercare ricchezza. Le migrazioni sono la conseguenza della necessità, e sarebbe bene che anche noi migrassimo verso un nuovo mondo, un nuovo sistema, che prima dobbiamo studiare e immaginare, smettendo di ritenere questo l’unico possibile, e chiedendoci sinceramente, onestamente, dove abbiamo sbagliato. #unuomotemporaneo 

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