Adesso che due persone armate (poi uccise dalle forze di sicurezza) hanno sparato a un poliziotto fuori da una galleria d’arte in Texas dove s’inaugurava la mostra “Disegna Maometto” non si può non parlare di una cena di gala con premiazione a New York. Perché?

Tutto è accentrato su una cena di gala che si tiene la sera del 5 maggio a New York presso l’associazione di scrittori PEN e che costa, ai non scrittori che vogliono parteciparvi, 15mila euro per cocktail, menu e compagnia bella.

Ho amici divisi su fronti opposti. Da un lato chi pensa sia giusto, a questa cena, premiare il coraggio di Charlie Hebdo nell’avere insistito a far quello che avevano sempre fatto, nonostante le minacce (avverate) di morte. Dall’altro, chi non vuole premiare una satira che viene vista come un modo per rinforzare pericolosamente stereotipi razzisti.

Su questo premio a Charlie Hebdo gli amici si stanno massacrando di insulti. “Mezzeseghe!” “Razzisti!” La litigata a colpi di tweet e di status update di Facebook non accenna a calmarsi. Ma non è uno scherzo perché apre un ragionamento importante, di quelli che accompagnano la trasformazione dei valori di una società. E non sempre la trasformazione è in meglio.

Ma 6 autori, ora noti come “i 6 PEN” hanno annunciato che a quella cena non ci andranno, il loro tavolo sarà vuoto. E altri 145 scrittori hanno firmato un appello in loro sostegno. Non partecipano in segno di protesta dicendo: siamo per la libertà d’espressione, ma non vogliamo premiare un giornale razzista come Charlie Hebdo che dipinge una donna africana come fosse una scimmia con il sedere in aria e che danneggia l’immagine delle minoranze. In altre parole, fa schifo e istiga al razzismo.

Andrew Solomon, presidente del PEN americano, ha spiegato con una frase come stanno le cose: “Premiamo il coraggio, non il contenuto”. Ma non è bastato. La scissione in questa prestigiosa organizzazione che tutela la libertà d’espressione nel mondo si è approfondita, spaccando amicizie a sodalizi che avevano costruito carriere.

A difendere la premiazione con il suo humour ficcante e acuto c’è Salman Rushdie, con cui non si transige né si tergiversa su questioni di oppressione alla libertà d’espressione o sulla censura. Dall’altra ci sono autori come Teju Cole, Francine Prose e Taiye Selasi, tre dei 6 PEN.

Il dibattito intellettuale nato con il sacrificio di Charlie Hebdo non si spegne, dunque, e sottolinea una riflessione importante, che si riteneva sorpassata.

Si ha il diritto di offendere chiunque in un contesto satirico o artistico? La risposta alla prima domanda dev’essere sempre sì. Altrimenti finisce la satira e inizia la propaganda e la censura, anche se è autocensura. Si possono offendere solo i potenti, tranne il concetto di divinità? No: si ha diritto di offendere anche i deboli, i sottomessi, le minoranze, i perseguitati. E anche il concetto di divinità, per quanto offensivo di chi crede. Non ci può essere una restrizione. Su questa libertà – offensiva, pesante, dolorosa per chi viene attaccato con insulti, ritratti osceni, menzogne, bestemmie – non si può transigere.

Non si può trasformare, come fanno “i 6 PEN” e i loro 145 sostenitori, la libertà d’espressione in una discussione ideologica su ciò che si esprime, nell’ambito di quella libertà.

Esistono delle leggi, in gran parte delle democrazie, che puniscono l’istigazione all’omicidio e alla violenza. Se con la satira si istiga all’omicidio o alla violenza, chi attua questa istigazione ne pagherà le conseguenze. Ecco i limiti della satira. Ma i 6 PEN dicono che la reiterazione dello stereotipo razzista provocata dalla satira alla Charlie Hebdo, anche quando vuole attaccare quello stereotipo, in realtà, senza rendersene conto, contribuisce a creare un clima che porta alla violenza, conduce a una mancanza di sensibilità verso chi muore cercando di entrare in Europa, oppure verso chi è discriminato e ucciso da poliziotti razzisti in America. Corroborare questa divisione di razze e di ceti, anche se con l’intenzione di fare il contrario (com’è chiaramente il caso di Charlie Hebdo) è criminale e non va premiato, dicono i 6 PEN.

Il punto è completamente sbagliato. Perché, val la pena ripeterlo, il premio che PEN consegna a Charlie Hebdo non ne premia l’arguzia o il grande contributo culturale all’evoluzione umana, ma premia solo il coraggio di non essersi lasciati intimidire dalle minacce di violenza e di omicidio. Questo è l’argomento che i 6 PEN non sembrano voler vedere. Non si entra in merito della blasfemia, dell’aggressività dei contenuti di Charlie Hebdo o di chiunque altro nell’ambito della libertà d’espressione, come scrittore, disegnatore, artista voglia esprimere la sua opinione.

Si premia il fatto che nonostante le minacce, quegli artisti hanno continuato, con moltissimo coraggio, sacrificando la vita, a esprimere quello che volevano esprimere. Ed è per questo che per quanto disgustosa, provocatrice, pericolosa sia stata l’iniziativa di Pam Geller che questo fine settimana ha offerto 10mila dollari, in Texas, a chiunque venisse al suo evento a “Disegnare Maometto,” in un contesto democratico è giusto che l’antipatica e pericolosa Pam Geller abbia il diritto e la libertà di farlo.

Difatti, e per fortuna, la maggior parte delle associazioni di musulmani-americani ha dichiarato che, pur essendo contrari, contrarissimi all’iniziativa, erano perfettamente d’accordo con la legittimità di poterla fare. Una comprensione dell’importanza della libertà che i 6 PEN e i loro co-firmatari non sembrano aver ancora acquisito.

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