Il ghetto rom di Ustì nad Laben è ai margini della città. Siamo nel nord della Repubblica Ceca, alla confluenza tra l’Elba e il Bìlina, dove un tempo c’erano industrie alimentari, chimiche, metalmeccaniche. “Oggi non c’è più niente, la crisi ha spazzato via tutto”, ci racconta Miroslav Broz, poco più di trent’anni, alto, il viso scavato dalla fatica e dalla passione, volontario dell’associazione per i diritti umani Konexe. Il ghetto rom è nei pressi di una fabbrica chimica che ha quasi cessato le attività. I rom, con gli anni, hanno progressivamente occupato le vecchie case abbandonate dagli operai. “Sono migliaia, non sappiamo quanti, qui nessuno ha mai fatto un censimento”, dice Broz.

Quando entriamo nel ghetto di Ustì sono da poco passate le undici del mattino. I ragazzi stanno già uscendo da scuola. “I bambini rom studiano in una scuola segregata – racconta Broz – i loro curricula sono diversi dai cechi bianchi. Poche ore di lezione al giorno, molta musica e danza, pochissima scienza, matematica, letteratura”. Alle undici le strade del ghetto sono affollate di gente. La disoccupazione è al 90%, gran parte dei giovani usa il crystal meth, l’aspettativa di vita nel ghetto è vent’anni meno della media ceca. Scorie chimiche sottoterra e amianto abbandonato per le strade hanno moltiplicato i decessi per cancro. Disperazione e mal nutrizione hanno fatto il resto. “Ho 41 anni e tre infarti alle spalle”, racconta Jaroslav, un residente incontrato per strada.

“Tutti i tentativi di migliorare la situazione sono falliti”, continua Miroslav Broz. Unione Europea e governo ceco hanno speso milioni di euro “ma i soldi sono andati principalmente alle strutture delle ONG e a programmi assistenzialistici che non hanno cambiato niente”. Quello che resta, appunto, è la disperazione. Il ghetto è un ammasso di macerie, rifiuti, case sventrate, auto bruciate. I bambini giocano in mezzo alla spazzatura e da quell’incrocio di povere strade, ai margini della città, non entra e non esce nessuno. “Un ghetto è diverso da un campo rom, non è vero?”, fa notare Miroslav. In effetti, un ghetto è diverso da un campo. Non ci sono baracche, non ci sono roulotte né tende. Non c’è un’impressione di segregazione temporanea. La segregazione è fissata, definitiva; passata, presente e futura.

Pare strano trovare ancora i ghetti, nel cuore d’Europa, nel 2015. Eppure i ghetti ci sono e sono il frutto di una lunga storia di pregiudizio e persecuzione. Buona parte dei rom cechi sono stati uccisi nei campi di sterminio nazista; un’altra parte è morta di fame, tifo, freddo nei campi di lavoro e concentramento. Degli attuali 250 mila rom della Repubblica Ceca, la grande maggioranza viene dalla Slovacchia. Furono deportati a Praga e dintorni dal regime comunista, per offrire manodopera a basso costo all’industria. Molti rom ricordano il periodo comunista come “un’età dell’oro”. Donne e uomini venivano sì sterilizzati a forza, dopo la nascita del primo figlio, ma non esistevano i ghetti e quasi tutti avevano un lavoro. Con il crollo del comunismo e il precipitare della crisi economica, povertà e persecuzione sono tornati. Tomio Okamura, il leader del partito di estrema destra, l’Alba della Democrazia diretta, ha proposto di rimandare “democraticamente” i rom in India. Violenze e tentativi di pogrom si sono moltiplicati, con un culmine il 27 agosto 2011, quando una folla di centinaia di neo-nazisti e semplici cittadini assalì le case rom a Rumburk.

Nel 1999 proprio qui, a Ustì, le autorità cittadine costruirono un muro alto due metri, lungo 65, che doveva tenere ben separati i rom dal resto della popolazione. Molti si erano lamentati per il “rumore e l’odore” che veniva dal ghetto. Il comune spiegò che il muro doveva servire non soltanto per ragioni igieniche, ma anche per impedire ai bambini rom di avventurarsi tra i pericoli della città. Ci furono polemiche, ci furono tentativi di blocco dei lavori, ma il muro fu comunque eretto. Qualche mese dopo, per le proteste della comunità internazionale, il sindaco decise di abbatterlo. “Ma non c’è bisogno di un muro, il ghetto è un luogo di per sé chiuso al mondo”, conclude Miroslav. I più giovani, quelli che hanno avuto uno straccio di educazione, vanno all’estero, soprattutto in Gran Bretagna, a cercare una vita migliore. Gli altri, in migliaia, restano qui, senza molto altro da fare che aspettare che venga la sera. E del resto non si esce, dal ghetto di Ustì. Chi può, scappa.

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