“Il capretto, il capretto! Vogliono incastrarmi!”. Sentivo Vincenzo Scarantino quasi quotidianamente in quel periodo. A Novembre del 2013 mi aveva chiamata per raccontarmi qualcosa che non sono mai riuscita a capire. Gli tremava la voce quella sera al telefono, per quanto mi sforzassi di capire quale fosse la sua paura, non andava oltre al “capretto”, così mi limitai ad ascoltarlo.

Pochi mesi dopo, a gennaio, ci siamo rivisti negli studi di Cinecittà. Mentre con la truccatrice cercavamo di fissargli la maschera che avrebbe tutelato il suo volto davanti alle telecamere, gli chiesi ancora cosa volesse dirmi quella sera al telefono. “Niè…lassa perdere”, non voleva più parlarne e per non agitarlo troppo, prima di occupare la scena di Servizio Pubblico, lasciai perdere.

La sorpresa del suo arresto in pompa magna, con volanti e sirene spiegate alla fine del programma lasciò l’intera redazione esterrefatta. Una notte intera, sotto la pioggia, ad aspettare sue notizie fuori dalla questura. All’alba, l’avvocato Maria Brucale, che avevo chiamato di gran premura per intervenire in questa improvvisa e oscura vicenda, mi dice che la polizia di Torino lo  aveva arrestato perché una ragazza psicolabile lo accusava di violenza sessuale.

Scarantino a novembre, nei giorni in cui ho ricevuto quella sua strana telefonata, sapevo che aveva rimediato un lavoretto, non sapevo quale. È emerso dalle indagini che  “cari amici” suoi lo avevano impiegato in una casa famiglia per ragazze con problemi psichici, serviva sostituire un educatore. Questi “cari amici” si sono presi una bella responsabilità nell’affidare un ruolo così delicato ad una persona già provata e altrettanto psicolabile come Scarantino. E dire che sapevano chi è Vincenzo, lo avevano conosciuto nella comunità di accoglienza che da un paio d’anni lo aiutava. E dire che loro stessi, gli “amici”, sono degli educatori!

Ad ogni modo Scarantino ha svolto il suo dovere come meglio ha potuto e, come sancisce oggi la sentenza del Gup di Torino Rosanna La Rosa, se ci è anche scappato un momento di piacere con una delle ospiti di questa struttura, non è reato. La ragazza era consenziente e lui non era al corrente di quali disturbi la ragazza soffrisse.

Io a Torino, presso l’ultimo domicilio di Scarantino c’ero stata. Dopo l’arresto ho voluto vedere dove era stato accolto e chi erano i suoi amici della comunità. La sede è un albergone abbandonato, subito allo svincolo per Ivrea. Era tutto aperto, la hall era ricoperta di spazzatura e calcinacci. Tutto intorno sembrava essere stato depredato, con tende rotte e faretti penzolanti lungo i corridoi.

Arrivai fino al terzo piano a piedi (mancava acqua e luce), chiedendo a gran voce se ci fosse qualcuno. Le porte delle stanze erano spalancate e in alcune sembrava si fossero accampate delle famiglie. Scarpette di bambini in ordine, cucine da camping e pacchi di cereali. Una aveva l’armadio spalancato, pieno di vestiti ammatassati e una foto in bianco e nero di Scarantino sul comodino. Sgranai gli occhi. Quella era la stanza dove aveva vissuto Scarantino.

Quella era la struttura della cooperativa che lo aveva accolto. Mi è rimasta la curiosità di conoscere quei suoi amici educatori. Di uno c’erano sparpagliati biglietti da visita per tutto l’albergo. Una volta era dj, una volta fotografo, in un altro biglietto risultava PR. Nella vita di Scarantino invece è stato un educatore, proprio quello che il 5 novembre gli aveva chiesto di sostituire un collega.

Scarantino resta l’imputato numero uno del Borsellino Quater e la sentenza di assoluzione gli restituisce la credibilità della quale necessita per affrontare il processo.

Solo un particolare: nell’ambito delle indagini torinesi la procura ha controllato i tabulati telefonici. La telefonata che aveva terrorizzato Scarantino quando mi farfugliava del “capretto”, ricevuta il 5 novembre del 2013, è partita dalla questura di Torino. E la storia continua…

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