Piano piano, il nocciolo della cosiddetta “questione Rai” si sta rivelando per quello che è sempre stato: una decisione circa gli interessi che ruotano attorno alla pubblicità “generalista”. Ma come, diranno alcuni, non si è sempre trattato, ogni volta che c’era di mezzo la “riforma Rai” di decidere fa pluralismo e obiettività, di attuare o sventare una concentrazione del monopolio di informare? Di garantire l’attuazione del diritto, che da qualche parte è scritto o almeno implicito a una decente informazione? Sì, queste erano le coreografie oratorie. E c’erano anche le sentenze della Corte Costituzionale emanate in quell’epoca in cui tutto era analogico, le emissioni tecnicamente scarse e il “pluralismo” garantito a colpi di pesi, contrappesi e lottizzazioni.

Ma già allora, al di sotto dei “principi”, si coagulavano gli equilibri economici. Fino agli anni ’70 mediante un “tetto” ai ricavi pubblicitari della Rai (visto che questa incassava anche sul canone) che proteggeva i bilanci della carta stampata. Poi, partire dagli anni ’80, quel medesimo tetto è passato a proteggere la “tv commerciale”, ovvero Mediaset, ovvero l’equilibrio del Duopolio. Perché il canone motiva il tetto che garantisce Mediaset, ma fa contenta anche la Rai e annichilisce qualsiasi terzo incomodo. E qui sta ancora il punto, che non riguarda tuttavia, a nostro parere, l’alzare o l’abbassare il tetto dei ricavi pubblicitari Rai quanto decidere se questi continueranno a essere mischiata coi proventi di natura pubblica.

La questione è in sé chiara. La novità è che si comincia a parlarne.
Mercoledì 15 aprile La Stampa buttava lì che il Governo potrebbe togliere alla Rai ogni limite di raccolta pubblicitaria, cancellando contemporaneamente la sovvenzione pubblica. Approccio logico, ma astratto perché, per natura, storia e cultura, la Rai non è globalmente riconvertibile in una azienda “commerciale”. E poi, abolendo la sovvenzione (1.600 milioni), si spazzerebbe via ogni possibilità di orientarla allo sviluppo accelerato della industria creativa, della relativa occupazione, della proiezione dello storytelling italiano nel mondo etc. etc. Come il marito che per fare dispetto alla moglie etc. etc.

Oggi sul Messaggero, Urbano Cairo fa una proposta più misurata, proponendo che, come già accade in Francia e Germania, l’azienda pubblica non trasmetta pubblicità dalle 20 in poi. Così sparirebbe almeno dal prime time il peso della concorrenza pubblicitaria Rai drogata dal canone. Aspettiamo le reazioni, ma comunque sospettiamo che per il Governo, il “farlo alla francese” non funzionerebbe sul piano della comunicazione politica, perché la pubblicità sui canali Rai continuerebbe a comparire e, che si tratti del canone attuale o di quello spalmato in qualche non evadibile bolletta, la gente continuerebbe a domandarsi perché pagare un’extra per una programmazione che di pubblicità comunque te ne rifila.

Ecco perché non possiamo fare a meno di ricordare che oltre alle soluzioni “canone e pubblicità” esistono anche quelle “canone o pubblicità”, guardando all’Inghilterra, dove la azienda tv dello Stato sono due: la BBC, che non ha la pubblicità; Channel Four che non ha il canone.
La buttiamo lì.

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