E’ morta serena, il 12 aprile scorso (così riportano gli articoli che in Gran Bretagna ne danno l’annuncio), a 86 anni: una bella età, tutto sommato.

Sheila Kitzinger, ecclettica studiosa femminista che ha radicalmente mutato, sin dagli anni ’60, la scena primaria del parto nel mondo occidentale scompare ma lascia un’eredità rivoluzionaria nell’approccio alla maternità consapevole.

E’ grazie alla sua tenace autorevolezza, alla sua forza e alla sua modalità allegra di comunicare e scrivere che molte donne (me compresa), hanno scelto di partorire a casa, e molte di quelle che non hanno potuto fare questa scelta hanno vissuto il loro parto in modo più consapevole e non medicalizzato seguendo le sue parole attraverso i tanti libri che lei ha scritto.

Ho incontrato questa bella e matronale signora dai capelli biondi quasi sempre raccolti e dagli occhi chiari indagatori nel 1984, per la sua prima visita in Italia, quando da poco si cominciava a parlare da noi di parto naturale e di parto a domicilio: prima di allora rasatura, episiotomia e clistere, oltre che obbligo di partorire in ospedale e secondo la posizione ‘a scarafaggio rovesciato’ (come Kitzinger definiva la scomoda posizione ginecologica imposta alle partorienti) erano norma e regola assoluta.

Nell’intervista che le feci (il mio primo articolo per il Manifesto), lei, invitata dalla ginecologa Sandra Morano a Genova per il primo seminario sulla nascita naturale aperto alla classe medica disse: “Sono qui per parlare della sfida e del dilemma che la nascita pone alla civiltà occidentale. Tutto quello che riguarda il cambiamento delle condizioni di vita delle donne deve avere inizio dalla base. Non possiamo aspettare che la classe medica muti il suo atteggiamento nei confronti della nascita e arrivi a comprendere il fenomeno nella sua totalità. L’introduzione in sala parto della tecnologia è dannosa perché toglie potere alla donna, soprattutto quando viene usata senza l’apporto dei mezzi naturali. E, soprattutto, i medici devono tornare tra le donne a sentire e vedere come si fa a mettere al mondo”.

Allora il discorso creò un forte imbarazzo tra gli operatori, messi in discussione dalla studiosa che in Inghilterra aveva partecipato, dal 1958, alla fondazione del National Childbirth Trust, il rivoluzionario istituto nel quale le donne che assistevano le altre durante il parto non dovevano necessariamente essere mediche, ma trasmettevano ‘in quanto madri’ alle partorienti la loro sapienza nel dare la vita.

Ma la dirompenza del lavoro di Kitzinger è stata soprattutto in questo: nel credere che la nascita sia un evento personale sì, ma allo stesso tempo altamente sociale, sensuale e sessuale, e per questo non ha mai smesso nei suoi testi, a cominciare da Il manuale del parto a casa a Genitori e figli: l’importanza del dialogo (scritto con una delle sue cinque figlie, Celia, attivista lesbica impegnata per il riconoscimento delle coppie omosessuali) di rammentare che le modalità di gestione della gravidanza e del parto devono essere scelte dalle donne e mai delegate alla classe medica.

Sembra ovvio, ma affermare che la nascita non è un malanno da curare ma un evento naturale, che il corpo femminile ha le risorse in sé e il sapere per affrontarlo non è cosa scontata, soprattutto oggi in Italia, paese europeo attenzionato dall’Oms per l’eccesso percentuale di parti cesarei negli ospedali.

L’articolo del Guardian che dà la notizia della sua morte la saluta ricordando come fosse una femminista per nulla dogmatica, elastica ed empatica: quello che le stava a cuore era che la futura madre seguisse il corpo, prendesse coscienza delle paure e le affrontasse senza essere costretta da fattori esterni.

Quando le si chiedeva come fosse stato conciliare l’essere madre di cinque figlie con le sue aspirazioni e carriera lei rispondeva: “Una parte di me pensa che se fossi restata a casa a badare alle mie figlie alcune cose sarebbero state più semplici per loro. Ma non credo che si possano preparare le ragazze per il mondo in cui viviamo oggi, un mondo che ha bisogno di essere cambiato, mostrandosi loro solo nel ruolo di madre. Io volevo delle figlie lottatrici.”

E così è stato. La sua autobiografia, A Passion for Birth: My Life – Anthropology, Family and Feminism, è in pubblicazione tra due mesi.

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