Le frasi choc postate da Fabio Tortosa, uno degli agenti di polizia che partecipò al tristemente noto sgombero della scuola Diaz nei giorni drammatici del G8 di Genova, sul suo profilo Facebook, hanno gettato benzina su un fuoco rimasto acceso per quattordici lunghissimi anni e che, solo una manciata di giorni fa, era già stato alimentato dai Giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno, finalmente, chiamato per nome e cognome quanto accaduto, definendolo “tortura.

Lo rifarei subito, ci rientrerei mille e mille volte” ha scritto lo scorso 9 aprile su Facebook l’agente della Polizia di Stato, parlando dei fatti di Genova.

Una frase che ha acceso, sul profilo social di Tortosa, un animato dibattito andato avanti per giorni nell’ambito del quale in tanti – colleghi di Tortosa e non – hanno mostrato di condividere il pensiero dell’agente di Polizia, cliccando su “mi piace” o congratulandosi apertamente con quest’ultimo: “Ti stimo e se fosse per me verrei anche io”, “sei un grande”, “la prossima volta kiama”.

Persino il comandante del reparto mobile di Cagliari, non ha saputo resistere alla tentazione di cliccare sul pulsante con il pollice alzato sotto il post di Tortosa.

Difficile in un clima di “social cameratismo” come quello venuto a crearsi sul profilo dell’agente, stupirsi del fatto che quest’ultimo, ventiquattrore dopo aver postato la prima frase choc, abbia avvertito l’esigenza di rincarare la dose: “Quelli come me pensano che Carlo Giuliani sia morto perché è una m….mi auguro che sottoterra faccia schifo anche ai vermi!”.

Naturalmente la reazione dei vertici del Ministero dell’Interno non si è fatta attendere e con essa le promesse di indagini, verifiche e di eventuali provvedimenti disciplinari che è difficile dubitare arriveranno davvero e saranno esemplari.

Ma il punto non è questo e non può essere quello che accadrà domani, “il giorno dopo”.

Il punto è che se un agente della Polizia di Stato – che è, peraltro, un sindacalista del Consap ed un membro della Consulta nazionale sulle tecniche operative dei reparti mobili – arriva a scrivere certe frasi su Facebook e se centinaia di persone – tra le quali persino alcuni suoi superiori – anziché condannarle, cliccano su mi piace, significa che c’è un macroscopico problema di mancanza di cultura ed educazione civica di base ma anche una drammatica sottovalutazione della rilevanza e della dimensione pubblica del mondo dei social network.

Come è possibile che agenti della Polizia di Stato non si rendano conto del potenziale incendiario di scrivere su Facebook che si ripeterebbe mille volte un’azione che – a prescindere dalle responsabilità dei singoli rimaste purtroppo inaccertate – la Corte europea dei diritti dell’uomo ha appena giudicato un episodio di tortura?

E come è possibile che, nel 2015 – con oltre un miliardo e trecento milioni di utenti che popolano le pagine di Facebook nel mondo – centinaia di persone, tra le quali anche il comandante di un reparto della Polizia di Stato, possano cliccare su “mi piace” sotto ad espressioni intrise di cameratismo, ignoranza e anti-cultura?

Certi pensieri, opinioni e stati d’animo non dovrebbero, naturalmente, albergare neppure negli antri più profondi dell’animo e della testa degli uomini ma giacché vi sono, educazione civica, cultura e buon senso, dovrebbero, almeno, suggerire di tenerli riservati nella propria sfera più intima e personale, di tenerli per sé o – se il desiderio di condividerli è davvero irrefrenabile – di farlo con amici, parenti e congiunti che, magari, dispongono di “strumenti” in grado di decifrarli e leggerli in una prospettiva, ammesso che ve ne sia una, diversa ed eticamente e moralmente più accettabile o, almeno, meno odiosa e raccapricciante.

Ma, invece, non è così.

Internet ed il mondo dei social network, benché siano ormai entrati a far parte della nostra esistenza quotidiana da tempo memorabile, sembrano restare per tanti – anzi per troppi – una dimensione parallela alla “vita reale”, un contesto nel quale è permesso anche ciò che, probabilmente, non si riterrebbe permesso in un altro contesto pubblico.

Ma guai a puntare l’indice solo contro l’ignoranza dei singoli perché si sbaglierebbe.

Le responsabilità di questa sottovalutazione del fenomeno Internet e di questi macroscopici fraintendimenti sui confini, le funzioni ed il ruolo dei social network nella società contemporanea è anche – e, forse, anzi soprattutto – dei grandi media mainstream e delle istituzioni che, per anni hanno proposto – ed in alcuni casi continuano a proporre – un’immagine di Internet e dell’universo social come un luogo “altro” dalla vita reale, uno spazio di relazioni frivole, una dimensione del futile, un farwest, un mezzo di comunicazione di massa di “serie B”.

Una considerazione forse amara ma che appare inevitabile specie se si segue la sottile linea rossa che unisce – sebbene con gli enormi distinguo del caso – l’episodio che ha visto protagonista l’agente della Polizia che partecipò ai fatti del G8 di Genova e quello, decisamente meno drammatico ma comunque significativo, che ha visto protagonista Paola Saluzzi, la popolare giornalista di Sky che, nei giorni scorsi, in un suo tweet ha dato del “pezzo di imbecille”, “arrogante” ed “invidioso” a Fernando Alonso, ex pilota della Ferrari, costringendo Sky a sospenderla.

Un altro episodio evidentemente rivelatore della sottovalutazione della dimensione pubblica dei social network e della fuorviante ed errata convinzione secondo la quale, ciascuno di noi, possa davvero vestire, nel mondo social, casacche e cappellini diversi, parlando e scrivendo ora a titolo personale ed ora quale giornalista o appartenente alle forze dell’ordine.

Non è così e la vicenda della Saluzzi è lì a dimostrarlo in modo inequivoco.

A nulla, infatti, è servito il fatto che subito dopo aver pubblicato il suo “sfogo” contro Alonso, Paola Salluzzi abbia cancellato il primo cinguettio e lo abbia “sostituito” con un altro nel quale imputava il suo “errore” al suo essere anche una “tifosa” della Ferrari.

La frittata era fatta, una giornalista di Sky ormai aveva dato, in mondo visione, del pezzo di imbecille ad uno dei personaggi più famosi del circo della Formula 1.

Ed è, al riguardo, straordinariamente educativo leggere le considerazioni di Mario Tedeschini Lalli, che, a margine dell’episodio, critica l’apologia della Salluzzi proposta sulle pagine de La Stampa da Massimo Gramellini il quale, nella sostanza, giustifica la giornalista di Sky perché il suo sarebbe stato “solo” uno sfogo di una tifosa su twitter e non il pensiero di una giornalista in televisione.

Non esistono due mondi paralleli online e offline e amministrazioni pubbliche e grandi gruppi privati farebbero bene a correre subito ai ripari, prima che sia troppo tardi, adottando rigide social media policy che, almeno, suggeriscano ai propri dipendenti e collaboratori come comportarsi nell’universo social, anche nella loro dimensione di “privati cittadini”, cercando così di sopperire ad un ritardo culturale ormai evidente.

La “leggerezza” dell’universo social nel percepito di molti sta, infatti, divenendo insostenibile.

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