Italiani brava gente, si usa dire. La diffusa convinzione che siamo un popolo di generosi, sempre pronti a dare una mano a chi è in difficoltà, è molto radicata nel nostro Paese e anche all’estero, dove spesso si accompagna ad altri luoghi comuni, non sempre lusinghieri. Ma i luoghi comuni hanno qualche radice nella realtà? Prendendo un indicatore oggettivo della generosità, ovvero le donazioni effettuate nel nostro paese a favore delle organizzazioni non profit, si potrebbe avere qualche sorpresa.

I recenti dati sulle donazioni al non profit in Italia diffusi dal mensile Vita – che per la prima volta ha stimato il totale erogato e ha pubblicato i dati fiscali sulle liberalità detratte o dedotte dai contribuenti – ci restituiscono una fotografia in chiaroscuro. Se infatti il totale generale, 12 miliardi di euro donati ogni anno al mondo del “senza fine di lucro” (calcolato in base a dati Istat e a stime sulle donazioni informali), può fare impressione, per comprenderlo fino in fondo occorre rapportarlo sia al totale della ricchezza detenuta dalle famiglie sia ai comportamenti donativi in atto in altri paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti. Qui l’autorevole rapporto Giving Usa del Giving Institute, la cui ultima edizione è del 2014 su dati 2013, ha svelato che il totale delle donazioni ammonta a oltre 335 miliardi di dollari, di cui 241 miliardi derivanti da individui. In soldoni, siamo a 753 dollari donati per abitante o, se preferite, allo 1,4 per cento del Pil.

Utilizzando gli stessi parametri di calcolo, visto che secondo i dati Istat (Censimento delle istituzioni non profit – 2011) le entrate da offerte e liberalità di privati ammontano, al netto di circa 250 milioni donati a organizzazioni come i partiti, i sindacati o i comitati, a circa 4,3 miliardi di euro, la cifra pro capite erogata è di circa 72 euro (che salgono a 116 se si considerano, in base alle stime di Vita, anche le offerte in chiesa). Oltre dieci volte di meno. Si dirà: gli statunitensi sono più ricchi di noi. Eppure secondo i più recenti dati della Banca d’Italia la ricchezza netta degli italiani ammonta a 8.728 miliardi di euro, mentre la Federal Reserve calcola quella degli americani in 80.700 miliardi di dollari: fatte le debite proporzioni, le donazioni individuali da noi rappresentano lo 0,05 per cento della ricchezza, negli Usa sfiorano lo 0,3. Insomma, un altro mondo.

Italiani brava gente dunque? Se si guarda soltanto alle donazioni al non profit, come abbiamo cercato di fare mettendo a confronto Italia e Stati Uniti, certamente non siamo generosi come ci dipingono, anzi. Doniamo dieci volte di meno, sei volte di meno in proporzione alla ricchezza che possediamo. Ancora peggio va se si guarda al numero di volontari: i nostri 4,7 milioni di persone impegnate gratuitamente a fini solidali (sempre dati Istat), che rappresentano il 10 per cento della popolazione al di sopra dei 18 anni, non reggono il confronto con gli oltre 62 milioni di volontari americani. Qui fa volontariato un cittadino su dieci, Oltreoceano un cittadino su quattro.

Anche guardando i dati fiscali relativi alle deduzioni e detrazioni applicate alle erogazioni al non profit, l’Italia è ferma all’età della pietra. Sono infatti solo 1,5 milione di contribuenti su circa 41 milioni quelli che usufruiscono dei vantaggi previsti sulle donazioni, come rivelato sempre da Vita, donando complessivamente 500 milioni, circa il 10% del totale censito dall’Istat, per una donazione pro capite di oltre 250 euro. Ipotizzando che siano le persone più culturalmente avvedute e con un reddito che giustifichi la convenienza della deduzione, e anche quelli che posseggono la ricchezza maggiore, se ne deduce che il 90% delle erogazioni viene da ceti meno abbienti e meno culturalmente attrezzati, quindi i ricchi donano una cifra irrisoria. I motivi di questo disimpegno di chi pure potrebbe fare la propria parte si riassumono in una serie di scuse: l’italiano non dona perché non si fida, perché non conosce le associazioni o non ha voglia di informarsi, non legge i rendiconti, non stima la professionalità di chi lavora nel terzo settore e, infine, ritiene che tocchi allo Stato fare qualcosa per i più deboli. Altra scusa è che i vantaggi, soprattutto relativi alla deducibilità, non sono significativi; eppure sarebbero rilevanti se la cifra donata fosse alta. E invece sono pochi quelli che ne beneficiano, e per somme contenute. Ancora una volta, all’appello della generosità mancano proprio quelli che potrebbero fare la differenza.

E’ questa la mentalità di cui liberarsi, quella di chi si giustifica e demanda integralmente allo stato sociale ogni intervento. Peccato che il sistema non ce la faccia più e le risorse a disposizione siano e siano destinate a essere sempre meno. Negli Stati Uniti, dove il welfare è molto diverso dal nostro, vige da decenni l’idea che tocca a chiunque abbia più dello stretto necessario “restituire” alla comunità, proprio attraverso il “giving”, l’atto del donare. E non si creda che sia semplicemente una questione etica o, peggio, pietistica. Al contrario, al donatore-tipo di stampo anglosassone, soprattutto se abbiente, è ben chiara la convenienza intrinseca al dono: se infatti io, donatore, contribuisco a migliorare la comunità in cui vivo, rendendola più sicura ed economicamente stabile, riducendo la povertà e l’insicurezza sociale, prevenendo malattie e migliorando l’educazione, otterrò come risultato un maggiore benessere, più sicurezza, meno disoccupazione, e quindi meno criminalità, più lavoro, più consumi in un circolo virtuoso alimentato proprio dal dono. Le risorse di cui si priva chi dona al non profit, quindi, anziché andare perdute si tramutano in un vero investimento sociale il cui ritorno è misurabile e percepibile da tutti, ma innanzitutto, oserei dire, da chi dispone di maggiore ricchezza, perché il miglioramento della società fa aumentare il valore di qualsiasi proprietà, a cominciare da quella immobiliare.

Serve dunque un profondo mutamento culturale che convinca anche noi italiani a farla finita col finto buonismo e con la solidarietà parolaia, e ci faccia capire che conviene essere protagonisti, senza aspettare che uno Stato sempre meno capace di rispondere ai crescenti bisogni sociali (si pensi solo all’invecchiamento della popolazione) intervenga ovunque e in ogni settore. Dobbiamo capire che tocca a ciascuno di noi, in relazione alle proprie disponibilità, contribuire a costruire un’Italia più solidale e, quindi, anche più ricca per tutti.

di Vincenzo Manes, consigliere pro bono del presidente del Consiglio per il terzo settore nonché presidente di fondazione Dynamo Camp e del gruppo Intek  

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