Nicola Mancino teme di “finire prima che finisca il processo” sulla Trattativa Stato-mafia. L’ex ministro, oggi ottantaquattrenne, ha in pratica paura di non arrivare a vedere la fine del procedimento che lo vede imputato per falsa testimonianza. Lo ha raccontato il suo legale, l’avvocato Massimo Krogh, intervenendo all’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo davanti alla corte d’assise che sta processando politici, boss e ufficiali dei carabinieri per il patto segreto tra pezzi delle Istituzioni e Cosa Nostra. “Il mio assistito – ha detto Krogh – sta vivendo un momento di grande sofferenza fisica e psichica: teme di finire prima che finisca il processo”. Mancino, ministro dell’Interno dal giugno del 1992, ha lamentato al suo avvocato l’eccessivo numero dei testi dell’accusa, che portano inevitabilmente ad allungare i tempi del processo.

“Il mio assistito – ha continuato l’avvocato Krogh – mi telefona esprimendo lamentele che mi rattristano: atteso che tutte le ordinanze sono modificabili nel corso del processo, per questo chiedo che la corte rivalutasse e riducesse l’elenco dei testimoni, soprattuto quelli dell’accusa. Ci sono troppi testimoni per poterlo ritenere un processo normale”. Dopo aver “bersagliato” il centralino del Quirinale, cercando l’aiuto di Loris D’Ambrosio (consulente giuridico di Giorgio Napolitano, poi deceduto), durante la fase delle indagini preliminari, adesso quindi Mancino telefona al suo avvocato, chiedendo d’intervenire per ottenere uno snellimento del processo. Per questo motivo, l’avvocato Krogh ha chiesto alla corte che ad ogni udienza venisse “sentito più di un testimone per volta, e che l’esame sia il più ristretto possibile sulle posizioni”. Nell’ultima udienza la corte presieduta da Alfredo Montalto ha ascoltato le deposizioni di due testimoni dell’accusa: l’ex dirigente del Dap Giuseppe Falcone e il pentito Emanuele Di Filippo.

“Alla fine degli anni ’80 nelle carceri vennero create delle aree omogenee dove venivano collocati i terroristi dissociati o che si volevano dissociare. Io non ero d’accordo, perché pensavo che i collaboratori dovessero avere benefici giudiziari ma non penitenziari: mi sembrava che fosse in atto un ammorbidimento per questo me ne andai dal Dap”, ha raccontato Falcone, che era su posizioni opposte rispetto a quelle di Nicolò Amato, all’epoca a capo dell’amministrazione penitenziaria. “Amato voleva portare avanti la riforma per la smilitarizzazione degli agenti di custodia, ma io non ero d’accordo”. Poi, nel 1993 Amato venne “silurato” dal presidente Oscar Luigi Scalfaro, e Falcone era tra i suoi più accreditati successori. “Appena i sindacati seppero del mio ritorno – ha detto il magistrato – cominciarono a chiedermi degli incontri, ma dopo tre giorni fui riconvocato dal ministro. Era sempre più agitato. Mi disse che si tornava indietro. Non capii mai il senso di quei miei tre giorni al Dap”.

Ha invece raccontato il supporto elettorale fornito da Cosa Nostra a Forza Italia il collaboratore di giustizia Emanuele Di Filippo, che negli anni ’80 faceva parte del gruppo di fuoco di Ciaculi. “Nel 1994 mi dissero che dovevamo votare per Forza Italia. Fu mio fratello Pasquale a dirmelo, ma anche Tommaso Spataro e i Graviano. Dovevamo votare Berlusconi perché lui avrebbe risolto i nostri problemi” ha raccontato il pentito, inserito nella lista dei testimoni dell’accusa, stilata dai pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi. “Mi ricordo – ha continuato Di Filippo – che poco dopo l’elezione di Berlusconi vennero in carcere i deputati Biondi e Maiolo. Ne parlai con mio fratello e lui mi disse che si vedevano i primi risultati dell’elezione di Berlusconi”. Secondo Di Filippo, Leoluca Bagarella avrebbe poi avuto l’intenzione di assassinare alcuni collaboratori di giustizia: un piano omicida agevolato dai contatti che il boss corleonese avrebbe avuto con esponenti dei servizi segreti. “Bagarella avrebbe trovato i pentiti tramite l’aiuto dei servizi segreti. Era solo questione di tempo. Voleva sapere dove si trovavano per ucciderli”. Un piano che non si realizzò mai, dato che il 24 giugno del 1995 il cognato di Totò Riina venne arrestato nel pieno centro di Palermo.

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