Prima hanno scelto un candidato sindaco vicino a Forza Italia, poi hanno fatto marcia indietro provando ad azzerare le primarie, adesso rischiano di rimanere con un pugno di mosche in mano. Il caso Agrigento potrebbe trasformarsi in un vero e proprio suicidio politico per il Pd siciliano. Angelo Capodicasa, l’ex presidente della Regione indicato come salvatore della patria democratica, non avrebbe intenzione di candidarsi a sindaco della città dei Templi. Un rifiuto che trascinerebbe nel caos il Pd, già travolto dalle polemiche dopo che le primarie agrigentine avevano incoronato Silvio Alessi, sostenuto dal parlamentare di Forza Italia Riccardo Gallo, da sempre vicino a Michele Cimino, ex gemello di Angelino Alfano.
“Alessi è una brava persona ma non rappresenta la nostra gente” si era trovato costretto a dichiarare Fausto Raciti, segretario siciliano del Pd, dopo che i vertici del Nazareno avevano ordinato di boicottare l’ingombrante candidato sindaco, capace d’inciampare subito in alcune infelici battute sull’esistenza di Cosa Nostra ad Agrigento. Dopo il passo indietro e l’azzeramento delle primarie era quindi toccato allo stesso Raciti tirare fuori dal cilindro il nome giusto per salvare almeno parzialmente la faccia. “Siamo disposti a mettere in campo una proposta autorevole per superare la complessa e confusa situazione da cui il Pd vuole immediatamente uscire”, dicevano i democratici dopo aver bocciato le contestatissime primarie agrigentine, ormai ribattezzate “falsarie” dall’area renziana agrigentina. La proposta autorevole altro non era che Capodicasa, primo presidente della Sicilia proveniente dal centro sinistra, già vice ministro con Romano Prodi, accusato di essere “impresentabile” alle politiche del 2013 ma alla fine salvato dalla commissione di garanzia.
Una situazione che sembrava stabile e che aveva trovato persino un colpevole perfetto: l’ex sindaco di Agrigento Marco Zambuto, costretto a dimettersi da presidente regionale del Pd dopo essere stato “beccato” ad Arcore, compagno di Riccardo Gallo al cospetto di Silvio Berlusconi. “Sono andato per una questione umana, alcuni media avevano rilanciato le dichiarazioni di un pentito che accusava Gallo di aver partecipato ad un omicidio di mafia nel 1988: ero lì a testimoniare l’onesta del parlamentare azzurro”, era stata l’autodifesa di Zambuto, che all’epoca dell’assassinio citato aveva appena 15 anni. Una spiegazione che non aveva convinto per niente i vertici democratici, alla ricerca di un capro espiatorio per il caso delle primarie: Zambuto aveva quindi presentato le dimissioni, indicato come colpevole morale del pasticcio agrigentino, suggellato dal vertice di Arcore. Tutto risolto dunque? Neanche per idea. Perché Capodicasa non sembra per niente interessato a candidarsi sindaco di Agrigento, tornando dopo anni a misurarsi con le preferenze e rischiando di essere alla fine soltanto un candidato di bandiera. Un gran rifiuto, quello del parlamentare democratico, che dopo l’ufficializzazione trascinerà nuovamente nella bufera i vertici del Pd, orfani di un candidato a venti giorni dalla chiusura delle liste per le elezioni di fine maggio.
Una situazione imbarazzante, dato che all’orizzonte rimane la candidatura indigesta di Alessi: il Pd però non potrà appoggiarlo ufficialmente, dato che il divieto dei vertici romani non ammette revoche. In alternativa resta in ballo l’appoggio a Calogero Firetto, deputato regionale dell’Udc, che si è tenuto fuori dal pasticcio delle primarie e adesso è pronto a stravincere le elezioni senza alcun oppositore temibile. Un po’ come fece nella vicina Porto Empedocle nel 2011: una coalizione che andava dal Pd al Movimento per l’Autonomia e il 93,3 per cento dei consensi. Anche in questo caso, però, i democratici non potrebbero utilizzare il simbolo, svanendo praticamente dalla scena agrigentina. Quella che sembrava una farsa, insomma, adesso rischia di trasformarsi in una tragedia in piena regola.
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