“Basta sprecare soldi nella lotta alla droga”. L’appello arriva da Olivier Gueniat, tutt’altro che un bizzarro antiproibizionista, uno sbirro. È il capo della polizia di Neuchatel, capitale dell’omonimo cantone della Svizzera francese, “cittadina da 35mila anime dove si fumano 3000 canne al giorno”. Sarà anche per questo che il governo federale ha deciso di inviarlo in Uruguay a studiare la marijuana di stato dell’ex presidente Pepe Mujica e in Sudamerica ha trovato le conferme che cercava: si può fare anche a nord delle Alpi, a patto però di un ferreo controllo statale dalla produzione al consumo, “un modello lontano anni luce da quello del Colorado che ha trasformato il mercato nero in grigio”. Così sarà Montevideo e non Denver a ispirare Ginevra e il suo progetto di apertura sperimentale dei cannabis social club atteso entro il 2015.

Gueniat insegna criminologia all’Università di Losanna, sulla sponda opposta del lago Leman, e dati alla mano snocciola le cifre di un fallimento: “Ogni anno 17mila poliziotti denunciano 98mila consumatori e presunti spacciatori. Spendiamo mezzo miliardo di franchi, sfiliamo a ogni cittadino 70 euro che potrebbero essere investiti altrove, come nella prevenzione”. Ma problema sono i risultati: “L’offerta di stupefacente è così estesa da non essere intaccata dalla nostra attività di polizia e la domanda di droga non accenna a diminuire”.

Tanto basta per provare a invertire la rotta, ma in sordina perché, anche se sono passati dieci anni, il ricordo della disastrosa esperienza del Ticino e dei suoi deodoranti speciali per cassetti è ancora vivo nella mente di poliziotti e investigatori. “Grazie a un trucco, per circa sei anni, il cantone italiano si è trasformato in una piccola Giamaica a 50 chilometri da Milano a disposizione di narcotrafficanti e ragazzini sballati”, ricorda Gueniat. 

Al netto di qualche scivolone va precisato che la Svizzera, al contrario dell‘Italia, ha sempre svolto un ruolo da pioniere in materia di politiche sulla droga. Nel 1986, è stato il primo paese a inaugurare spazi speciali per i tossicodipendenti, le cosiddette “stanze del buco”, e nel 1994 ha introdotto la prescrizione medica di eroina. Anche le pene per i consumatori di cannabis sono lievi: 100 franchi, la stessa ammenda di chi viene sorpreso viaggiare sui mezzi pubblici senza biglietto.

Oltre a essere dirigente di polizia e docente, Gueniat siede nella Commissione globale per le politiche sulle droghe, quella che, se andrà a buon fine l’esperimento di Ginevra, proverà a formulare una legge federale che riunirà i 26 cantoni. Insieme a lui c’è Ruth Dreifuss, anziana leader socialista più volte ministro ed ex presidente della Repubblica. In passato è stata una delle principali ispiratrici delle rivoluzionarie politiche sulle droghe al punto di guadagnarsi il nomignolo di “spacciatrice della nazione”. Ma lei tira dritto e lascia che siano i fatti a parlare: “Grazie alla riduzione del danno abbiamo debellato le piaghe di eroina e Aids fin dagli anni ’90. Ora è tempo di aggredire il commercio illegale e di far sì che chi decide di fumare erba possa farlo in sicurezza”. Come? “Con la coerenza. Regolamentando la sostanza come è stato fatto per alcool e tabacco. È molto più efficace incoraggiare la gente a osservare delle regole piuttosto che imporre un divieto al quale di certo si trasgredirà”.

Dopo che nel 2004 il sostituto procuratore di Bellinzona Antonio Perugini bruciò l’ultima piantagione di marijuana sulle Alpi, agli svizzeri non rimase altro che dedicarsi alla coltura indoor. Ma a differenza delle piccole grow room olandesi, la coltivazione assunse subito dimensioni industriali con enormi piantagioni nascoste in hangar e capannoni. “Io una volta ne ho scoperta una da 30mila piante”, ricorda il comandante Gueniat che spiega: “Ogni anno vengono prodotte 130 tonnellate di cannabis per un mercato che vale quasi un miliardo di euro gestito da clan criminali italiani, spagnoli ed est europei”.

Così, se l’offerta è incontrollabile, tanto vale provare a lavorare sulla domanda rendendo la marijuana cantonale più conveniente e sicura di quella del mercato nero. Con molte regole: vendita solo ai residenti maggiorenni dopo essersi iscritti a un apposito registro “per disincentivare il turismo dello sballo come in Olanda”. Ma soprattutto ferrei controlli sulla qualità: dal seme allo spinello, perché, secondo uno studio dell’Università di Berna, la canapa indoor svizzera è piena di sostanze pericolose come pesticidi ed erbicidi. “Come possiamo permettere che più di 500mila consumatori si intossichino quotidianamente con prodotti vietati nel riso o nel mais?”. Gli fa eco Madame Dreifuss: “Vogliamo provare a portare avanti un metodo equidistante sia dal proibizionismo che da un sistema completamente liberalizzato, dove le risorse che prima si spendevano in repressione vengano destinate a campagne di sensibilizzazione, prevenzione e recupero”.

Come in Uruguay, appunto, paese in cui in poco più di un anno “le tossicodipendenze sono diminuite, il business delle narcomafie è stato intaccato la protezione sanitaria per i consumatori è superiore agli standard previsti dalla Convenzione Onu sulle droghe”.

Una bella sfida che forse solo la piccola, laica e pragmatica Svizzera può permettersi di affrontare. Nel frattempo però, a migliaia di chilometri di distanza, il nuovo presidente uruguagio Tabaré Vázquez ha già iniziato a prendere le distanze dalla politica sulle droghe del suo predecessore.

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