Dopo il duplice attacco suicida di oggi a Sanaa, i sostenitori di una divisione dello Yemen che possa sfociare in una guerra civile sono più che accontentati. L’avvenimento in se stesso non presenta novità. Dallo scorso ottobre – da quando cioé la capitale è caduta nelle mani dei ribelli di etnia houti, e di orientamento culturale sciita-zaidita – gli attacchi suicidi si sono compiuti con regolarità. A partire dal 9 ottobre 2014, quando un uomo che teneva per mano tre bambini si è fatto saltare nella sede della Yemen Bank for Construction and Development in piena piazza Tahrir, uccidendo più di 70 persone e ferendone 150; fino all’autobomba che il 7 gennaio scorso fece una cinquantina di vittime, tutti giovani, davanti alla scuola di Polizia. Senza contare numerose altre autobombe fatte esplodere davanti alle sedi di partito degli houti, a scopo intimidatorio.

Ma ciò che cambia, stavolta, è la duplice e contemporanea modalità: gli attentatori erano due e si sono fatti saltare in due moschee diverse, la al-Badr nella centralissima e commerciale Zubajiri street e la al-Hashoosh nel quartiere di al-Jiraaf, vicino l’aeroporto di Sanaa. Entrambe affollatissime per la preghiera del venerdì, come si può intuire dall’elevatissimo numero di feriti, poi progressivamente morti anche a causa dell’emergenza sangue in tutti gli ospedali della zona, a corto di sacche ematiche e presi d’assalto dalle ambulanze.

Altro elemento di novità, l’appropriazione della paternità dell’attentato da parte di Daish/Isis, diventato il brand multinazionale del terrore in ogni Paese del Medio Oriente, dal Maghreb alla Penisola arabica, quando – fino agli attacchi precedenti – era sempre la sigla regionale di Al Qaeda (Aqap) e il branch di Ansar al-Sharia a rivendicare le azioni di guerriglia trasversale. Probabilmente un segno di saldatura fra le due sigle o, in mancanza, segnale di una prevalenza della visione dello sheik di al Qaeda Nasr al-Ansi (colui che incoraggia la fusione con Isis) su quella del suo “rivale” tradizionalista Harith al-Nadhari. Non va comunque escluso il fattore di mediatizzazione globale che può solo portare a Isis ulteriori proseliti da una parte e alla radicalizzazione del terrore dall’altra.

L’attacco di oggi, va tuttavia letto in una prospettiva esclusivamente locale e regionale. L’aeroporto di Aden, la città più importante del Sud, ex capitale dello Yemen meridionale prima della riunificazione del Paese negli anni Novanta e oggi luogo di riparo del presidente in carica Abdu Rabbo Mansour Hadi, è stata interessata fino a due giorni fa da una accesa battaglia con armi medie e pesanti ad al-Mukalla tra i separatisti del Sud e forze dell’esercito regolare per il controllo dell’aeroporto e di una base militare adiacente. I voli sono stati sospesi per paura che l’escalation militare sfociasse in conflitto aperto e continuativo. Nella nuova e ormai sostanziale capitale dello Yemen, dove i paesi del Golfo hanno riaperto le loro ambasciate, le forze governative del presidente Hadi sono viste come una potenziale minaccia dai separatisti che da anni, soprattutto dopo la cosiddetta Primavera araba, chiedono un federalismo reale.

La polarizzazione delle posizioni politiche verso uno scontro che dall’esterno viene definito “settario”, è ormai un dato di fatto, nonostante il governo degli Houti a Sanaa invitasse qualche giorno fa alla distensione e al dialogo. Al centro del contendere sta comunque il possesso di tutto il Paese nella sua estensione: il Nord per le sue riserve, in parte inutilizzate, di petrolio e gas, di cui nuove colonne sono state scoperte quasi casualmente intorno al 15 marzo nella capitale; il Sud per l’accesso strategico al mare, necessario a chiunque voglia governare il Paese per favorire lo stoccaggio delle materie prime e il commercio energetico, oltre che per mettere le mani su strutture militari, navali e aeronautiche avanzate.
Dietro le quinte, la lotta per il potere resta in Yemen ancora un fatto abbastanza personale tra Hadi e l’ex presidente Saleh, estromesso dopo 30 anni di dittatura durante la primavera araba e regista certificato – fanno fede un certo numero di intercettazioni pubblicate lo scorso gennaio e risalenti all’ottobre 2014 – dell’attacco al partito dei fratelli musulmani (Islah), dell’azzeramento dei poteri della potentissima famiglia degli al-Ahmar e dell’avanzata degli Houti dal Nord su Sanaa.

I venti di guerra soffiano comunque da Sud. Una settimana fa il presidente Hadi aveva convocato centinaia di miliziani delle tribù bin-Hilal del Sud-Est (provincia di Shabwa) per organizzare la protezione di Aden e, allo stesso tempo, pianificare una strategia di ripresa del Nord finora in mano sciita. Centinaia di veicoli con capi tribali a bordo si sono mossi da sabato scorso verso la città di Aden per partecipare al Comitato popolare locale. In base a questo scenario, s’hanno da collocare movimenti di uomini, mezzi e armi in quantità consistente dall’esterno verso il territorio yemenita, se si considera come indicativa anche la “perdita” di 500 milioni di dollari in armi, destinate dal Pentagono al Paese e che si teme – secondo le affermazioni dello stesso Pentagono – sia caduto in mano o dei ribelli scitti o di Al Qaeda. Così, Peter Salisbur -, che il 6 marzo scorso si chiedeva, dalle colonne di Foreign Policy, se lo Yemen stesse per diventare una possibile nuova Siria – non può apparire un profeta di sventura ma semplicemente qualcuno assai bene informato sui fatti incombenti e, probabilmente, previsti da lungo tempo.

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