La ripresa economica di cui tanto si parla, spesso a sproposito, nei bilanci delle banche ancora non si vede. Neppure da lontano. Il 2015 sarà un altro anno difficile per il settore del credito con conti zavorrati da una montagna di crediti malati che diventa sempre più alta. Per farvi fronte serviranno ovviamente altri soldi, circa 70 miliardi di euro nei prossimi due anni e qualche concreto miglioramento arriverà, forse, solo dal 2016. A tratteggiare questo scenario poco incoraggiante è l’agenzia di rating Standard and Poor’s in uno studio sul settore bancario italiano pubblicato ieri.

Lo studio precisa che le condizioni variano sensibilmente da banca a banca, con quelle medio piccole più in difficoltà. Tuttavia il quadro complessivo rimane fosco. I cosiddetti non performing loans, vale a dire i crediti erogati su cui si rischiano perdite a causa delle difficoltà finanziare del debitore, continuano ad aumentare e potrebbero raggiungere i 390 miliardi di euro a fine 2016 con un incremento di altri 115 miliardi di euro rispetto ai valori attuali. Una stima non dissimile da quella prospettata alcuni giorni fa dal direttore generale di Unicredit Roberto Nicastro, secondo cui i crediti deteriorati del sistema bancario italiano arriveranno già quest’anno a 350 miliardi di euro. Quel che più preoccupa è che i flussi di sofferenze creditizie continuano ad aumentare senza che si intraveda nessuna inversione di tendenza. S&P stima che da qui al 2016 le banche italiane avranno bisogno tra i 67 e i 72 miliardi di euro per coprire nuove perdite sui crediti.

A pesare sono soprattutto i finanziamenti concessi alle imprese mentre per quanto riguarda i prestiti alle famiglie la situazione appare meno problematica sebbene, spiega S&P, alta disoccupazione e contenimento delle retribuzioni potrebbero peggiorare la situazione. L’aumento dei crediti a rischio non dovrebbe sorprendere se si considera che abitualmente la situazione inizia a migliorare 12-18 mesi dopo l’avvio di una ripresa economica. Le stime di S&P sono molto prudenti. Nel 2015, scrive l’agenzia, il Pil italiano crescerà di un modesto 0,2% per poi accelerare, salvo imprevisti, a +0,8% nel 2016. Eppure nel 2014 non sono poche le banche che hanno ridotto gli accantonamenti per far fronte a possibile perdite sui crediti scommettendo proprio su un’inversione di rotta.

Il problema è che i crediti malati drenano risorse a scapito dei nuovi finanziamenti e pesano sui conti erodendo i profitti. Gli istituti italiani sono mediamente poco capitalizzati e dunque faticano ad assorbire perdite senza dover ricorrere a nuovi rafforzamenti di capitale. La bassa capitalizzazione è frutto anche di una debole redditività degli istituti di credito, che quindi dispongono di poche risorse proprie per rafforzare la loro situazione patrimoniale. Non molto tempo fa il presidente di Monte dei Paschi di SienaAlessandro Profumo, aveva sottolineato come il sistema bancario italiano abbia “ritorni sul capitale” (in pratica quanto riescono a far fruttare i soldi investiti) che nel migliori dei casi arrivano al 5%. Questo a fronte di un costo dello stesso capitale (ossia i rendimenti che devo offrire a un investitore per rendere attraente l’investimento) del 10%.

Fare utili con il margine d’interesse, la differenza tra quanto una banca paga per attrarre risparmi e quanto si fa pagare per concedere prestiti, in una situazione come quella attuale – con tassi Bce prossimi allo zero – è missione quasi impossibile. S&P stima che nel 2015 questa voce subirà una contrazione media tra l’1 e il 4 per cento. Difficile fare soldi anche investendo in titoli di Stato, che pagano interessi ai minimi storici. E i proventi da commissioni potranno solo in parte compensare i minori introiti delle altre voci. Le banche in grado di offrire questi servizi potranno in qualche misura rifarsi anche con le gestioni patrimoniali e le assicurazioni sulla vita. Si continuerà comunque a tirare la cinghia. Nel 2015 i proventi operativi dovrebbero scendere tra il 3 e il 5% e anche nel 2016, spiega l’agenzia di rating, i profitti saranno in media ben al di sotto dei livelli pre crisi e circa la metà rispetto ai bilanci del 2008.

Le mosse della Bce, come i finanziamenti Tltro (liquidità a bassissimo costo fornita alle banche con il vincolo, più teorico che reale, di usarla per prestiti a imprese e famiglie) o l’acquisto di obbligazioni bancarie hanno effetti limitati. Finché l’economia è debole, a essere scarsa è infatti anche la domanda di finanziamenti, non solo la disponibilità della banca a concederla. Vista anche l’alta frammentazione del sistema bancario italiano l’esito più probabile di questa situazione dovrebbe essere una tornata di fusioni e acquisizioni che, secondo Standard & Poor’s, potrebbe entrare nel vivo verso la fine del 2015. La riforma delle banche popolari all’esame del Parlamento, che prevede la trasformazione in società per azioni per quelle con oltre 8 miliardi di attivi, dovrebbe facilitare questo processo.

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