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Torna stasera, alle 21,15, su Rai5 il mio appuntamento con “L’arte secondo Dario Fo”. La puntata è dedicata a “Correggio che dipingeva a testa in giù”. Eccone un’anticipazione

Avete mai visitato gli affreschi dipinti dal Correggio sulla cupola del Duomo di Parma, dieci anni prima che Michelangelo dipingesse quelli della Cappella Sistina a Roma? Ebbene, vi voglio svelare che salendo là in cima, il particolare che sconvolge ogni visitatore è l’invenzione dello scorcio prospettico, cioè ogni figura sospesa nel vuoto è riprodotta sempre come vista dal basso. Ma, soprattutto, a sorprendere fino all’incanto è la magia con cui si muovono le figure che galleggiano nell’aria, come se facessero parte di un gioco metafisico d’alta scienza geometrica. C’è subito da chiedersi: da dove ha acquisito una tale sapienza d’analisi proiettiva, questo pittore? Era forse ingegnere o architetto laureato in qualche università di Parma o Bologna insieme a Keplero e Copernico? Ma per carità! È ben risaputo che Antonio Allegri era di umili origini. Venne al mondo nel 1489 a Borgovecchio di Correggio in una angusta dimora. Il padre s’arrangiava battendo la piana del Po nei panni di una specie di venditore ambulante di stoffe rustiche e altri manufatti di basso valore e prezzo: insomma, una specie di “vo cumprà” dell’epoca!  

Anche Giorgio Vasari testimonia dello stato di difficoltà in cui vivevano Allegri e la sua numerosa famiglia. La vistosa presenza di ragazzini, maschi e femmine, figli dei vari fratelli e sorelle del padre, in quella casa, la vediamo spesso proiettata nei suoi dipinti. Lo zio Lorenzo era pittore e Antonio ragazzino di certo imparò i primi rudimenti della pittura da quel maestro di casa, un maestro in verità di doti minime tant’è che il nipote, ancora giovanissimo riuscì a sorpassarlo ben presto nell’abilità e nel talento.  

Una dote rara: la coscienza del valore della vita  

Due secoli dopo, alla fine del ‘700, un grande scrittore francese, Stendhal, si trovò a vivere a Parma e rimase tanto affascinato da quella città che la elesse a propria patria. Qui ebbe l’occasione di conoscere molte fra le più belle opere del Correggio e se ne innamorò. Ma il sentimento di stima e ammirazione per l’artista crebbe in modo incontenibile quando, compiendo un’inchiesta storica sul pittore, scoprì l’incredibile svolgersi di quella vita: “Com’è possibile”, si chiedeva, “che un ragazzo riesca, partendo socialmente e culturalmente da così in basso, addirittura da zero, quasi analfabeta, a rimontare a livelli così alti di capacità, sapienza e genialità?”  

Di certo, la massima dote di Correggio fin da ragazzo era la costanza, unita a un desiderio di emergere inarrestabile e a una sete di conoscere e sapere ineguagliabile. Ma il nucleo portante che di certo l’Allegri teneva come il maggiore era senz’altro la coscienza del valore della vita: un dono da campare come un incanto.  

Il vantaggio nell’apprendere le basi del sapere regalatogli dalla sorte, per il Correggio era determinato dal fatto di trovarsi nel pieno della sua infanzia a vivere in una famiglia povera di mezzi, ma dotata di un grado di alfabetizzazione piuttosto avanzato per una comunità di ambulanti.  

Infatti uno dei figli dello zio pittore, maggiore del Correggio, in quel tempo si laureò a Bologna nel collegio degli studi poveri… bellissimo nome per una scuola popolare: “Il collegio degli studi poveri”! E questo giovane esercitò la professione medica. Inoltre due suoi parenti, Cristoforo e Giacomo, erano insegnanti. Da questa favorevole condizione, e a dimostrare che l’esser nati da uno stesso seme non è cosa indifferente, ha vita la straordinaria predisposizione dell’Allegri per il sapere, da quello umanistico, scientifico a quello filosofico e poetico.  

Ancora in tenera età, il ragazzo ha la fortuna di incontrare due grandi umanisti: Giovanni Berni e Battista Marastoni, che gli procurano i primi rudimenti della scrittura e delle scienze letterarie, nonché dell’eloquenza e della retorica.  

A 14 anni, il Correggio va a Modena. In quella città conosce il medico Gianbattista Lombardi docente all’università di Ferrara che lo istruisce sulla medicina, la dialettica e la logica. Come dice un antico proverbio: “Le occasioni girano intorno ad ognuno come una giostra che non si ferma di certo ad aspettarti. Se non gli salti subito sopra al volo a costo di spaccarti le gambe è come se non ti fosse mai passata appresso”. 

Di certo è il Dna ereditato dal padre ambulante, che lo porta a cambiare spesso luoghi e maestri. Infatti di lì a poco il giovane Allegri, che ha appena compiuto 15 anni, si trasferisce a Mantova, città del Mantegna, dove dipinge con Francesco, figlio del grande maestro dello scorcio, mancato proprio qualche anno prima.  

Il Cristo del Mantegna: un gioco di prestigio  

Nella casa dello stesso Mantegna ha l’occasione di vedere per la prima volta da vicino il Cristo deposto dalla croce, visto dal basso – uno dei più grandi capolavori del ‘500. Il quadro è lì, davanti a lui, con il corpo di Gesù disteso di scorcio, con i piedi grandi in primo piano e in sequenza, schiacciati, gli arti del corpo senza vita: ginocchia, bacino, ventre, pettorale e, in fondo, il volto inerte del figlio di Dio.  

Nessuno aveva mai dipinto un Cristo defunto così morto! Correggio ne rimane a dir poco folgorato. Quel dipinto sembra tutto un gioco di prestigio e invece è solo talento e scienza pura.  

In quel tempo conosce, direttamente o attraverso le stampe e i dipinti, i più grandi maestri del Cinquecento in Italia, da Leonardo a Michelangelo e Raffaello, e attraverso quelle pitture sviluppa le sue doti come il famoso racconto della pianta di fagioli che va crescendo fino a raggiungere la luna.  

Antonio Allegri detto il Correggio al tempo in cui viveva e operava – cioè a dire, dal 1515 al 1534 – era ritenuto da tutti gli amatori d’arte e i maestri di pittura e scultura più importanti d’Italia e d’Europa di quel tempo uno dei più grandi pittori viventi. I dipinti dell’Allegri godevano di una quotazione molto alta nel mercato dell’arte. Oltretutto era considerato un genio della pittura a fresco su cupole di dimensioni straordinarie come quelle di San Giovanni e del Duomo di Parma. Ma, come succede spesso nella storia di grandi artisti di fama eccelsa, per uno strano sconvolgimento del mercato, dopo un secolo ecco che all’improvviso Correggio perde di quota fino a diventare quasi uno sconosciuto.  

L’orgia delle opere regalate ad altri  

E – beffa incredibile! – appena dopo un secolo e mezzo la sua immensa produzione di opere viene letteralmente smembrata dagli studiosi e dai critici del tempo, e regalata, o meglio, attribuita, ad altri noti pittori. Così, una tavola straordinaria come L’educazione di Cupido con Venere ignuda, viene attribuita a Giorgione. Un’altra Venere, quella spiata dal satiro, è regalata a Lorenzo Lotto… Giove che si tramuta in nube per godersi la splendida Io, una ninfa carica di sensualità, addirittura viene ceduta a Tiziano.  

E per finire, Leda ed il cigno, se lo pigliano i fratelli Carracci. Insomma, un’orgia.  

Ad ogni modo, per restituire il maltolto al legittimo autore si è dovuto aspettare addirittura fino alla metà del Novecento. Grazie all’entrata in campo di Roberto Longhi, Federico Zeri, e di altri studiosi di talento, si è riuscita a imporre una vera e propria rivoluzione critica. In verità, il tentativo più forsennato di cancellare le opere più importanti del Correggio, si realizzò negli ultimi anni della sua vita – quando i fabbricieri responsabili dei monumenti più prestigiosi della città di Parma programmarono di sbiancare letteralmente tutte le pareti da lui dipinte ad affresco nella grande cupola del duomo. È proprio il caso di ricordare che, secondo alcune fonti storiche, il salvamento fu determinato dalla presenza a Parma in quei giorni, di un estimatore del Correggio di indiscussa autorità. Si trattava nientemeno che di Tiziano Vecellio, il quale, venendo a conoscenza del progetto a dir poco criminale in corso, si rivolse ai responsabili della diocesi, e chiese: “Scusate, ma voi avete la minima idea del valore in moneta di ciò che vi accingete a distruggere? Sappiate che se volete una giusta misura di quello che valgono questi affreschi dovreste riempire con una valanga di monete d’oro l’intera vasca capovolta della cupola!” E sotto quella valanga bisognerebbe seppellire anche voi!, questo l’ho aggiunto io, ma ci sta bene…  

È così che pare si sia salvato quel preziosissimo affresco. Ma non è stato sufficiente l’impegno di Longhi, Zeri e di molti altri studiosi a divulgare e a ridare ad ognuno la coscienza della grandezza di questo pittore. 

Il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2015

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