Chi vende dispositivi o supporti di memorizzazione a “soggetti diversi da persone fisiche a fini manifestamente estranei a quelli della riproduzione per uso privato” dovrebbe essere esentato da qualsivoglia obbligo di pagamento del cosiddetto compenso per copia privata ovvero il compenso dovuto a fronte dell’eventualità che smartphone, tablet, pc, schede di memoria, hard disk ed ogni altro genere di dispositivo o supporto analogo sia utilizzato per fare una “copia privata” di un’opera audiovisiva ulteriore e diversa rispetto a quella acquistata.

A stabilirlo – anche se, forse, sarebbe più corretto dire a ribadirlo – è stata la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con una sentenza pubblicata ieri.

Una manciata di caratteri che valgono, probabilmente, centinaia di milioni di euro in giro per l’Europa e, certamente, decine di milioni di euro solo nel nostro Paese dove la vigente disciplina, varata – tra mille polemiche – a giugno dello scorso anno, dal Ministero dei Beni e delle Attività culturali stabilisce che il cosiddetto compenso per copia privata venga pagato anche quando ad acquistare uno smartphone, un tablet, un PC o un qualsiasi supporto di memorizzazione sia un professionista o una persona giuridica.

Non basta – e sembra evidente a leggere la Sentenza della Corte di Giustizia – che la disciplina in questione demandi poi alla Siae il compito di stipulare eventuali convenzioni per esentare dall’obbligo di pagamento del compenso talune categorie di soggetti o di vendite né che chi avesse pagato ciò che non doveva pagare possa poi chiedere il rimborso.

L’esenzione deve esserci per tutti coloro che acquistano un supporto o un dispositivo se “soggetti diversi da persone fisiche” – e, dunque, sempre quando ad acquistare è una società o un’associazione – e “a fini manifestamente estranei a quelli della riproduzione per uso privato” e, dunque, sempre, quando, ad acquistare è, ad esempio, una pubblica amministrazione o un professionista.

Punto e a capo.

La disciplina nazionale è fuori legge senza che vi sia spazio per alcuna interpretazione più o meno suggestiva.

Il Ministero dei Beni e delle Attività culturali, letta la sentenza della Corte di Giustizia, dovrebbe intervenire senza ritardo sul proprio recente decreto e modificarlo chiarendo che nessun compenso può essere preteso quando ad acquistare uno dei supporti o dispositivi rientranti nell’ambito di applicazione del provvedimento è un ente, un’amministrazione pubblica, un’associazione o una società e, dunque, un soggetto diverso da una persona fisica o, un professionista.

Guai a dubitare che vedendosi sfuggire di mano parte del tesoretto da oltre cento milioni di euro che il Mibac le ha consegnato con il decreto in questione, domani – o, forse, già nelle prossime ore – Siae e l’industria dei contenuti diranno ed urleranno forte che, in realtà, la questione della compatibilità della disciplina nazionale in materia di equo compenso è appena passata indenne dal vaglio del Consiglio di Stato che si è limitato a rimettere alla Corte di Giustizia dell’Unione europea proprio una questione analoga a quella appena risolta con la decisione di ieri e che, dunque, ora, al nostro Paese, tocca solo attendere.

Non è così e non vi è ragione per cui debba essere così. Non c’è ragione per continuare a dragare dalle tasche della pubblica amministrazione italiana, della piccola e media impresa di casa nostra e di centinaia di migliaia di professionisti già strozzati dalla crisi, milioni e milioni di euro in modo del tutto indebito.

E non c’è soprattutto ragione – né giustificazione – per continuare a “tassare” l’acquisto di dispositivi e supporti tecnologici in un Paese che la stessa Unione europea, non più tardi di qualche giorno fa, ha certificato essere venticinquesimo – sui ventotto Paesi membri – in fatto di diffusione e penetrazione delle tecnologie.

Nessuno vuole privare i titolari dei diritti d’autore di qualcosa che gli spetti ma, allo stesso tempo, non si può continuare a foraggiare un sistema basato su una sostanziale ingiustizia ovvero sull’idea che chi non userà mai un dispositivo o un supporto tecnologico per riprodurre neppure un’opera audiovisiva debba pagare fior di quattrini come se l’usasse a tale scopo.

Ma la Corte di Giustizia, nella sua sentenza, va oltre e mette nero su bianco, un’ovvietà che, tuttavia, in Italia, sembra, sin qui, essere sfuggita all’attenzione delle Autorità – Mibac in testa – che dovrebbero vigilare sulla Siae. I rimborsi del compenso per copia privata versato da chi non avrebbe dovuto versarlo – amministrazioni, enti pubblici, società e professionisti in testa – devono essere facili ed effettivi. La procedura di rimborso di Siae lo è? Quanti milioni di euro, negli ultimi quattro anni, Siae ha rimborsato ad amministrazioni ed imprese che non avrebbero dovuto pagare il compenso? Quante richieste di rimborso ha ricevuto? Il Ministero dei Beni e delle Attività culturali ha mai chiesto conto alla Società italiana autori ed editori di queste cifre? Ed ha ricevuto risposta?

Non si tratta di essere “contro” questa o quella categoria né a favore di questa o quest’altra ma, semplicemente, di esigere che la legge sia eguale davvero per tutti e, soprattutto, che sia fatta rispettare senza eccezioni o favori di alcun genere.

Nota di trasparenza: quello che precede è un resoconto obiettivo della decisione della Corte di Giustizia e dei suoi effetti sul nostro Ordinamento ma, pr trasparenza, preciso che assisto un’associazione di consumatori nel giudizio di impugnazione contro la nuova disciplina nazionale sul cosiddetto compenso per copia privata

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Riceviamo e pubblichiamo la replica della Siae 

La Sentenza della Corte di Giustizia europea del 5 marzo 2015 (causa C-463/2012), conferma integralmente la legittimità della copia privata per come disciplinata in Italia e semmai esprime un principio esattamente l’opposto a quello che l’Avv. Scorza ritiene di aver individuato. La Corte, anzitutto, ribadisce la correttezza della logica del sistema della copia privata: la riproduzione di un’opera senza la preventiva autorizzazione al titolare dell’opera procura a quest’ultimo un inevitabile pregiudizio. Per questo è giusto che al titolare dell’opera spetti un compenso. E per questo, va detto, accostare la copia privata ad una “tassa” (anche e soprattutto secondo la Corte di Giustizia) è una volontaria ed inutile falsificazione.

Sempre secondo la Corte di Giustizia, poi, quando si parla di apparecchiature o dispositivi a larga diffusione è impossibile individuare i singoli utenti o acquirenti privati e chiedere ad essi il pagamento del compenso di copia privata. Ed è per questo che è giusto che il compenso sia a carico non dei privati stessi ma di coloro che producono, importano o distribuiscono apparecchiature di riproduzione o che mettono tali apparecchiature a disposizione dei privati.

Ancora: secondo la Corte non è necessario accertare se le persone fisiche realizzino effettivamente copie private. È legittimo presumere che chi abbia a disposizione funzioni di riproduzione sfrutti prima o poi una tale disponibilità. Ed è anche per questa stessa ragione che è irrilevante il fatto che un supporto sia unifunzionale o plurifunzionale, dal momento che è la semplice capacità di realizzare copie che giustifica l’applicazione del compenso per copia privata. E ciò (è bene sottolinearlo), è un profondo vantaggio per il privato che altrimenti dovrebbe, ogni singola volta, richiedere una nuova autorizzazione. Il vero paradosso (anche secondo la ricostruzione della Corte di Giustizia) è che chi è contro la copia privata è in realtà contro i consumatori.

 Il tutto, dovendosi avere sullo sfondo l’eccezione per cui solo i dispositivi che siano effettivamente destinati ad un uso manifestamente estraneo (e si sottolinea “manifestamente”) a quelli di riproduzione privata (così detto uso “professionale”) sono meritevoli di esenzione.

Ora, tanto precisato, la Corte di Giustizia chiarisce anche che, quando si è di fronte ad operatori (è il caso ad esempio degli importatori o dei distributori o rivenditori) che per attività professionale acquistano apparecchiature o dispositivi di riproduzione per poi rivenderli sul mercato senza sapere quale sarà l’uso finale (se professionale o privato), il sistema della copia privata deve restare esattamente quello sopra descritto. Del resto, ove ci siano catene commerciali “lunghe” o complesse è impossibile determinare da subito (cioè dal momento della prima immissione nel mercato) la destinazione dei dispositivi.

È però giusto che il sistema normativo consenta l’esenzione dalla copia privata ove i detti operatori siano subito in grado di dimostrare di aver fornito i dispostivi in questione a soggetti diversi da persone fisiche  e quindi dagli utenti finali (ad es. altri importatori, distributori o rivenditori o altri soggetti cui spetti effettivamente l’esenzione) e per fini manifestamente estranei a quelli di riproduzione privata (uso professionale). Ed è del pari giusto che il sistema normativo preveda un diritto al rimborso del pagamento della copia privata (sempre e solo in caso di uso professionale) che non renda eccessivamente difficile la restituzione del pagamento stesso. Anzi: secondo la Corte il fatto stesso che l’acquirente finale possa ottenere il rimborso del compenso di copia privata, ove appunto ricorra l’uso professionale, rende in se’ irrilevante il problema dell’esenzione per i produttori o importatori tenuti a versare il compenso. Il sistema appena descritto è esattamente quello esistente in Italia.

Anche in Italia, la copia privata compensa la possibilità concessa da dispositivi di riproduzione di copiare (appunto) privatamente un’opera senza necessità di chiedere tutte le volte una nuova autorizzazione al titolare dell’opera stessa. Anche in Italia il compenso di copia privata è posto a carico non dei privati ma di coloro che producono, importano o distribuiscono apparecchiature e dispositivi di riproduzione. Ed anche in Italia la copia privata è null’altro che un vantaggio per l’utente giacché gli assegna una indubbia libertà in più: quella di godere delle funzionalità dei dispositivi acquistati potendo effettuare copie delle opere soggette a diritto d’autore. Anche in Italia, poi, in caso di uso professionale, all’acquirente finale spetta il diritto ad ottenere il rimborso, presentando a tal fine una specifica richiesta. Ed il sistema di rimborso è tutt’altro che farraginoso, essendo basato sul mero invio anche via email di un modulo (di richiesta appunto del rimborso) disponibile sul sito Siae.

È comprensibile (anche se non condivisibile) il tentativo di chi (come l’avv. Scorza) voglia ad ogni costo trovare appigli alle proprie tesi per evitare di doverle finalmente riconoscerle come semplicemente errate (quando non volutamente artefatte). Ma nessuna smentita è contenuta nella decisione della Corte di Giustizia o nella sentenza del Consiglio di Stato del 18 febbraio 2015. Semmai solo conferme della correttezza della copia privata che è e resta una fondamentale tutela del diritto d’autore e del lavoro di tanti.

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