Arriva nelle nostre sale in sordina, a ridosso della Notte più importante del cinema mondiale, quella degli Oscar, in programma il 22 febbraio. Arriva senza clamore, nonostante il metallo nobilissimo conquistato in Laguna, e senza troppe aspettative, almeno di incasso: del resto, i risultati degli ultimi Leoni d’Oro al botteghino – il discorso vale purtroppo per Palme e Orsi – sono riassumibili con Pietà, il film di Kim Ki-duk vincitore al Lido nel 2012. Peggio per chi non andrà a vederlo, perché Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza del regista svedese Roy Andersson merita, e andrebbe protetto, preservato, sostenuto. Soprattutto, visto.

Leone d’Oro a Venezia 2014, conclude la trilogia “sull’essere un essere umano” inaugurata con Songs from the Second Floor (2000) e proseguita con You, The Living (2007): stavolta si parte da tre incontri con la morte – infarto del marito che stappa la bottiglia con moglie canterina; vecchia in agonia che non molla i gioielli ai tre figli; passeggero esanime su un traghetto con consumazione già pagata – e si procede per una riflessione esistenzialista che salta da Hopper a Bruegel passando per l’Ikea

Chiediamoglielo al poeta-regista che avesse in mente: “La tensione che c’è nell’esistenza tra banalità e serietà, questo è il significato che intravedo nel film. Ci sono temi a me più cari di altri, quali la mancanza di empatia, che oggi è in rapida ascesa; la mancanza di rispetto, idem; la vulnerabilità, e sono terribilmente triste quando persone indifese che vengono umiliate”. Già, Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza “è un film sulla vita: qualche volta è così comune da non essere interessante, altre volte è sorprendente, e io ne rimango affascinato e spaventato insieme”. Dunque, su il sipario e giù si fa per dire, la maschera: due commessi viaggiatori “nel divertimento” provano a sbarcare il lunario, ovvero canini e canini extra lunghi da vampiro, sacchetti che ridono e maschere da zio con dente solitario; la barista Lotte la Zoppa vende grappa a 50 centesimi oppure un bacio; Re Carlo XII di Svezia sfratta le donne dal bar e trotta verso la sconfitta, in temeraria e impassibile ucronia; un marinaio non trova l’appuntamento; una scimmia viene seviziata per scopi scientifici; torture assire accompagnano il colonialismo; Glory, Glory, Hallelujah suona da leitmotiv…

Certo, se vi girano le scatole, se avete poco tempo (mentale) e poca pazienza, buttate un occhio alla sala accanto, ma se volete liberarvi in aria laddove osano i piccioni, ecco, questo cinema-diorama ha molto da offrirvi: Anderssdon raffredda le emozioni, infarina i volti, dilava i colori, impaglia il reale, ma non è un De profundis, se non all’estetica – e all’etica – del cinema mainstream più pastorizzato.  

Anzi, lo humour la fa da padrone, prendendo per mano nonsense e surrealismo: “Possono esserci delle analogie tra il mio cinema e il suo, ma Ingmar Bergman non aveva umorismo: questa è la più grande differenza”, commenta tra serio e faceto Andersson, ed è difficile dargli torto. Qui si ride, sorride, bofonchia e, dopo un po’, si coglie il disegno complessivo: Un piccione è un aforisma lungo un film, vezzeggia i nostri tic, stigmatizza bonario le nostre inadempienze, sottolinea le nostre indecisioni, i “vorrei ma non posso”, i “dovrei ma non voglio”, il caos del nostro stare tutti giù per terra. Il piccione ci guarda, discerne nella nostra confusione esistenziale, s’orienta nello sfalsamento di tempi, modi e desideri, tuba nell’immenso casino del nostro qui e ora: che volete di più? Assaggiare per credere.

Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2015

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