A Lampedusa oggi c’è il sole.
I morti in mare non ci stanno, i turisti si fanno il giro in barca e io con un mucchietto di persone me ne vado in giro ad intervistare gli abitanti dell’isola per capire come funziona la vita su questo scoglio a un passo dall’Africa.

Ci racconta Veronica, che ha lavorato nel centro di accoglienza e ha “fatto degli incontri che sono rimasti impressi nella mia mente, ma non capivo cosa stava accadendo intorno a me, ma il personale era sempre quello. Sempre sei o sette persone eravamo a gestire tutto quanto… un centro che era per 180 posti doveva bastare per 1000.
Chi faceva la fila per la colazione, doveva iniziare quella per il pranzo e poi doveva mettersi in fila per la polizia.
Faceva la fila per mangiare, fila per il dottore e fila per la polizia.
Qui vediamo l’aspetto più tragico. Vedere arrivare una barca strapiena di persone che appena scendono… svengono, non è una situazione bella.
E loro nemmeno parlano e dagli occhi capisci di cosa hanno bisogno. Di vestiti asciutti, di qualcosa di caldo da bere.
Non c’è bisogno di parole per raccontare la propria esperienza.
Rischiano di morire, eppure qui sono solo all’inizio… chissà dove arriveranno.
Ma per loro essere a Lampedusa significava essere salvi.
Tutto il giorno dicevano: grazie Lampedusa!

Il prete di Lampedusa, Don Mimmo, ci dice “che dobbiamo fare? O spostiamo l’isola o ci prendiamo la responsabilità di essere uno scoglio in mezzo al Mediterraneo”.

Quelli che scappano coi barconi non cercano soldi o lavoro, ma solo una maniera qualunque per non morire. Sappiamo che scapperebbero anche se mandassimo le motovedette a sparargli addosso. Vengono via da una morte sicura e si buttano in braccio a una vita incerta.

Lampedusa non può essere un confine o una periferia, ma un’opportunità per un occidente che è stato per troppo tempo imperialista e violento e che può diventare una porta aperta attraverso la quale far passare esseri umani che cercano di salvarsi la vita.

Quanto ci costa questo pezzetto di umanità riconquistata?

 

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