Leggendo le motivazioni della sentenza d’appello del processo dell’Aquila risulta che la Corte riconosce che da uno degli esperti è giunta alla popolazione aquilana una rassicurazione circa la presunta non pericolosità sismica della situazione in atto, e che questa ha avuto un esito disastroso nel persuadere parte della popolazione a non uscire dalle abitazioni a seguito di due scosse che precedettero di qualche ora il terremoto del 6 aprile 2009.

Infatti, rispetto alla condanna iniziale dei sette esperti, il secondo grado di giudizio restringe l’ambito di tale responsabilità ascrivendola al solo allora vice capo della Protezione civile, Bernardo De Bernardinis, reo di aver comunicato alla popolazione aquilana la teoria secondo cui si sarebbe stati di fronte a uno “scarico di energia” che avrebbe dilazionato il terremoto in innocue scossette. Secondo la Corte tale diagnosi di “non terremoto” sarebbe stata comunicata agli aquilani in totale autonomia e antinomia rispetto agli altri scienziati, vittime del tutto inconsapevoli di una sorta di raggiro architettato dalla Protezione civile. Così gli altri esperti sono stati assolti con formula piena, nell’idea che la valutazione espressa nel corso della riunione sarebbe stata scientificamente impeccabile e per nulla assimilabile a quanto esternato da De Bernardinis.

Già questo è falso, illogico e contraddittorio. Vediamo perché, nella premessa che – così come in una scena del crimine l’arma del delitto va rivelata e non nascosta – al fine di giudicare una condotta colpevole, gli elementi di colpevolezza andrebbero selezionati ed evidenziati, non occultati con artifizi retorici.

Nel corso della riunione Franco Barberi presentò la teoria dello scarico di energia chiedendone conto agli altri esperti convocati, senza ricevere nessuna smentita da alcun chi. Tutti tacquero, invece di sottolineare che questa teoria è una bestialità o di saltare dalla sedia (come durante il primo grado affermarono che avrebbero fatto se avessero sentito parlare di “scarico di energia” i due imputati Claudio Eva e Giulio Selvaggi, peccato che durante quella riunione non lo fecero, peccato che nulla obiettarono, dichiarando poi di non aver affatto sentito quella chiara domanda, per quanto riportata nella bozza del verbale, agli atti del processo). Invece dai discorsi degli esperti vennero fuori affermazioni che – soprattutto se valutate in quel contesto – acquisivano un senso pericolosamente rassicurante, se non del tutto pseudoscientifiche.

L'Aquila, assolti in appello 7 componenti Commissione grandi rischi

Barberi dopo aver sottolineato che “è molto improbabile che nello stesso sciame la magnitudo cresca”(mentre, in quella circostanza, era già passata da 2 a 4, sic!) enunciò il seguente principio: “questa sequenza sismica non preannuncia niente”. Enzo Boschi addirittura nel corso del suo intervento si espresse in questo modo: “escluderei che lo sciame sismico sia preliminare di eventi” (dopo aver dichiarato, tra l’altro, che riteneva improbabile una scossa distruttiva come quella del 1700 poiché ci sarebbero stati dei “tempi ritorno” molto lunghi, di 2-3000 anni; questo quando all’Aquila i “tempi storici di ricorrenza” dei terremoti disastrosi sono nell’ordine dei 300 anni, cioè quando si era nel periodo di ritorno storico e nel mezzo di una sequenza sismica crescente in atto).

Non stupisce che dopo la riunione De Bernardinis andò a riferire in conferenza stampa che “non ci si aspetta una crescita della magnitudo”, senza che nessuno dei tre membri della Commissione presenti con lui in quel momento si fosse degnato di alzarsi e obiettare che escludere un terremoto è una sciocchezza pseudoscientifica e assolutamente pericolosa, tanto più se pronunciata in un territorio ad altissimo rischio sismico, in un momento di convergenza tra i tempi storici di ricorrenza di terremoti catastrofici e la presenza di una sequenza sismica in atto.

La Corte tratta questi dettagli non come elementi di colpevolezza, ma relegandoli all’insignificanza, o per assenza di approfondimento o attraverso espedienti retorici. Se l’affermazione di Boschi sull’escludibilità di un terremoto da una sequenza sismica è menzionata senza essere discussa, dalle motivazioni della sentenza si legge che nessuno dei presenti avrebbe “interloquito” sulla nozione di “scarico di energia”. Questo è un modo ambiguo per dire che Barberi domandò agli esperti di questa teoria ma nessuno la confutò. Anzi, più che un modo ambiguo è un modo erroneo di trattare la faccenda. La comunicazione non è una questione meramente verbale; e, specialmente in un contesto come quello di una riunione tecnica, non rispondere a una domanda – non a una domanda qualsiasi, ma alla questione cruciale – significa interloquire eccome. Semplicemente perché, in questi casi, chi tace o ignora o acconsente. E non si tratta solo di un modo di dire, ma del primo assioma della comunicazione umana: “non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro” (Watzlawick, Beavin, Jackson, “Pragmatica della comunicazione umana”).

Questo consente di affermare che, in contraddizione con quanto espresso nelle motivazioni della sentenza di appello, all’interno di quella riunione la teoria dello “scarico di energia” è stata introdotta e non confutata da nessuno dei presenti, ma anzi indirettamente rafforzata da alcune infelici affermazioni di non pericolosità della situazione in atto, espresse in una valutazione complessiva disorganica, sibillina e contraddittoria. Questo filo collega in modo non equivocabile la condotta dell’unico condannato con quella degli assolti, e la sentenza di secondo grado questo filo lo ha illogicamente e contraddittoriamente tagliato.

Non solo. Il giudice di primo grado condannò tutti gli imputati definendo la valutazione del rischio sismico data dagli esperti approssimativa, generica e contraddittoria, a partire da un parametro metodologico di natura normativa che escludeva espressamente dall’indagine i dettagli di natura scientifica specificamente sismologici, ma fu comunque accusato di aver fatto un processo alla scienza. Viceversa la Corte d’appello dichiara che il parametro di valutazione della colpa deve essere quello della correttezza scientifica delle valutazioni espresse.

Così la Corte assume le sembianze di una commissione di valutazione scientifica che certifica la correttezza scientifica delle valutazioni espresse all’interno della riunione aquilana della Commissione grandi rischi; e, si badi bene, lo fa senza servirsi un consulente neutrale, ma basandosi essenzialmente solo su quanto affermato dagli avvocati difensori degli esperti. Questo rivela un recepimento acritico egli argomenti difensivi e una contraddizione di fondo: se il giudice di primo grado fu accusato falsamente di pretendere di giudicare la scientificità degli scienziati (il mantra del “processo alla scienza”, appunto), ora il secondo grado può basare l’assoluzione su un giudizio di tipo scientifico, per giunta infondato (a meno di non voler elevare gli avvocati della difesa a commissione di valutazione scientifica). Quindi, non è che la giurisprudenza non può sanzionare la scientificità degli esperti, non può farlo in senso negativo, ma se lo fa in senso positivo è benvenuta. Questa doppia misura, questa assunzione d’inviolabilità mi sembra avvilente, davvero qualcosa che riporta a un medioevo rovesciato ma intatto nella sostanza, dove al posto della sacralità di Dio c’è quella dello “scienziato”.

Purtroppo il giudizio di scientificità espresso dalla Corte oltre che infondato è falso, in quanto è noto a qualsiasi studente di geologia che una sequenza sismica in atto aumenta la probabilità di un evento di picco (e in proposito va ricordato che, proprio a seguito del disastro aquilano, la Protezione civile commissionò uno studio, l’Earthquake Operational Forecasting, che ribadì, prevalentemente attraverso riferimenti teorico-bibliografici antecedenti al sisma, che una sequenza sismica in atto aumenta da cento a mille volte la probabilità di base di un forte terremoto). Per non parlare del fatto che il banco di prova della realtà proprio nel caso aquilano ha smentito tristemente che non si può escludere un terremoto da una sequenza sismica in atto.

Comunque, visto che la Corte ha sancito dogmaticamente la totale correttezza scientifica delle valutazioni sismologiche espresse nel corso di quella riunione, non possiamo escludere l’esistenza di un universo parallelo, in cui il fatto di recarsi con il blasone di esperto di fama mondiale in un luogo in cui è in atto una sequenza sismica e l’affermare la possibilità di escludere l’eventualità di un terremoto da tale sequenza, non significa affatto rassicurare la popolazione su basi pseudoscientifiche. In tal senso da questa sentenza si può derivare un teorema. Se il nome potrebbe essere “teorema dell’Aquila” o “teorema dell’escludibilità”, il contenuto può essere il seguente: “data una sequenza sismica in atto possiamo escludere che questa sia preliminare di un terremoto disastroso”.

In altre parole questa sentenza d’appello, affermando dogmaticamente la correttezza scientifica di quelle valutazioni, impone implicitamente il postulato secondo cui escludere un evento disastroso da una situazione di rischio non significa rassicurare. Qui, o si assume che un evento disastroso è un evento rassicurante, o che escludere non significa escludere, ossia deve valere che una proposizione è uguale alla sua negazione. Come si vede questa sentenza rivoluziona la logica, e in tal senso ha bisogno di abitare in un universo parallelo, come a volte pare essere quello della giustizia italiana, specialmente quando sul banco degli imputati ci sono le istituzioni.

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