Yuichi Sugimoto è un affermato fotoreporter che da oltre vent’anni copre gli eventi in Medio Oriente. È stato più volte in Iraq, Afghanistan, Gaza, Siria. Le sue foto sono apparse sulla maggior parte dei media giapponesi ed internazionali. Si è sempre mosso con grande attenzione e senso di responsabilità, evitando di mettersi in situazioni particolarmente rischiose. Ora è indignato e al tempo stesso disperato. Perché non può più svolgere il suo lavoro. Una situazione difficile e complicata, che peraltro potrebbe colpire molti altri suoi colleghi. Anche in Italia, come vedremo.

Con un provvedimento senza precedenti, il governo giapponese, qualche giorno fa, gli ha ritirato il passaporto. Stava per recarsi in Siria, paese che conosce molto bene e dove è stato più volte, ma a seguito della vicenda degli ostaggi uccisi, il governo giapponese ha deciso di applicare una norma mai utilizzata dal dopoguerra: quella che consente di rifiutare la concessione – o disporne il ritiro nel caso sia già in suo possesso – del passaporto ad un cittadino “per il suo bene”. Per evitare cioè, che finisca in situazioni pericolose. Una norma che, come vedremo, è prevista anche dalla legge italiana sui passaporti.

“Prima mi hanno ripetutamente chiesto, per telefono e di persona, di rinunciare al mio viaggio, previsto la prossima settimana – ci ha spiegato Sugimoto – poi, al mio cortese e motivato rifiuto, sono passati alle minacce vere e proprie. Una sera si sono presentati a casa mia due funzionari del ministero degli esteri con due poliziotti e mi hanno ordinato di consegnare il passaporto. Se non lo fai, mi hanno detto, ti arrestiamo. Avevano un documento ufficiale, firmato dal ministro degli Esteri Kishida”.

La notizia, sul momento, non ha avuto molto rilievo sulla stampa giapponese. Erano passati pochi giorni dalla tragedia degli ostaggi, e aldilà della solidarietà formale per le vittime, sono molti in Giappone quelli che attribuiscono una certa responsabilità a chi, volontariamente, si va a cacciare nei guai. Ma da qui a ritirare il passaporto ad un professionista, dimostratosi sinora persona accorta e responsabile, ce ne vuole. Ma resta il fatto che Sugimoto, almeno per ora, ha ricevuto più solidarietà dalla stampa estera che da quella nazionale. Sarebbe interessante vedere cosa succederebbe, in Italia, se questo tipo di provvedimento fosse adottato contro un giornalista italiano.

“Io non avevo nessuna intenzione di andare in territorio Isis e nemmeno in altre zone considerate al momento particolarmente pericolose – racconta Sugimoto – non comprendo pertanto questa decisione e la considero non solo ingiusta nei miei confronti, ma estremamente pericolosa nei confronti della libertà di stampa e più in generale di movimento dei cittadini”.

In effetti, privare del passaporto un libero professionista, che tra l’altro trae la sua fonte di reddito proprio da questi viaggi, pone alcuni interrogativi. Come valutare le situazioni? Caso per caso? E per quanto tempo? Ma soprattutto, come coniugare la comprensibile esigenza di proteggere la vita di un cittadino (ed evitare, come Stato, di trovarsi a gestire situazioni di emergenza) con il diritto a muoversi liberamente? Ritirare il passaporto significa privare un cittadino del suo diritto all’espatrio, garantito dalla Costituzione. A Sugimoto non viene impedito solo di andare in Siria, ma di uscire dal Giappone. Non può andare neppure negli Usa, in Europa, dove la sua vita non sarebbe certo in pericolo.

Una situazione difficile, che peraltro potrebbe avvenire anche in Italia, soprattutto ora che che il governo sta valutando una serie di nuove misure. Le norme ci sono. L’art 9, comma 3, della legge n.1185 del 21 /11/ 1967, che regola appunto la concessione dei passaporti, prevede appunto una serie di casi, oltre alle varie riserve di legge che ostano alla concessioni del passaporto o ne provocano il ritiro (condanne penali, obblighi alimentari etc) nei quali il Ministero degli Esteri, con proprio decreto, può rifiutare il passaporto (o disporne il ritiro). Uno di questi è “quando la vita, la libertà, gli interessi economici o la salute dei cittadini siano in grave pericolo”. E’ esattamente la motivazione addotta dalle autorità giapponesi che hanno ritirato il passaporto a Sugimoto.

Quello che differenzia la normativa giapponese da quella italiana è la possibilità di opporsi, impugnando la decisione. In Italia è consentito, entro 30 giorni. In Giappone no. E’ anche per questo che Sugimoto, oltre che indignato, è anche preoccupato. “Mi hanno fatto chiaramente capire che non avrò più il passaporto. Questo significa che non ho più un lavoro, e alla mia età è un po’ difficile inventarmene un altro”. Una situazione davvero difficile, alla quale Sugimoto, pur consapevole delle difficoltà a cui andrà incontro, ha deciso di opporsi pubblicamente, annunciando la sua intenzione di chiedere giudiziariamente la rescissione del provvedimento.

Non sarà facile: in Giappone non esiste l’equivalente del Tar e la magistratura ordinaria, che si dovrà occupare del caso, difficilmente decide contro la pubblica amministrazione, soprattutto in casi, come questo, dove il tasso “politico” è molto alto. C’è tuttavia la possibilità di contraccare, sostiene il suo avvocato: “Se il governo si assume la responsabilità di comprimere la libertà di movimento di un cittadino con la scusa di proteggerlo, riconosce l’esistenza di una sorta di responsabilità oggettiva. Un cittadino che subisse un danno, economico o fisico all’estero, dove si trova legittimamente, potrebbe far causa al governo per non averlo saputo proteggere adeguatamente”.

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