Wild è la versione cinematografica (adattata per il grande schermo da Nick Hornby) del coraggioso libro di Cheryl Strayed, basato sulla sua esperienza personale quando aveva ventisei anni. Devastata dalla morte prematura dell’amatissima madre, lanciata verso un cammino di autodistruzione, la giovane Cheryl prova a ripartire affrontando a piedi 1.100 miglia lungo la Pacific Crest Trail per recuperare se stessa e la donna che sua madre le aveva insegnato ad essere.

La storia di Cheryl potrebbe essere la storia di qualsiasi altra donna. Eccetto che non lo è.

Non solo perché non tutte le donne hanno provato a farsi di eroina o hanno fatto sesso occasionale con uomini sconosciuti appena incontrati. Ma soprattutto perché poche sono le donne – in particolare in Italia – che decidono di sperimentare un viaggio di crescita interiore e individuale in solitaria. Partire per un anno in giro per il mondo come fanno, ad esempio, gli anglosassoni, vivere da sole condividendo l’appartamento con altre persone, lavorare qualche mese all’estero, sono eventi che toccano le donne solo marginalmente.

Quando una donna esce di casa, nella maggioranza dei casi, passa dalle (seppur amorevoli) mani del padre a quelle del marito, privandosi così di un’evoluzione personale frutto di un raccoglimento in se stessi. Quella maturazione che nasce quando si deve contare esclusivamente sulle proprie forze per innalzarsi a condottiera del proprio destino, e non limitarsi a copilota di padre prima e marito poi.

Nel voler tenere le donne in un’ostinata bambagia – considerandole esseri troppo fragili per affrontare il grande mondo da sole – le si relega a un ruolo di spettatrici insulse, padrone nemmeno della propria vita.

Cheryl tocca il fondo. Un fondo pieno di merda puzzolente, guasta la vita di chi la ama e più di tutti la sua, ma grazie a un misto di intuito, ribellione, amor proprio e follia, prende la vita per le palle e in apnea, risale verso acque più chiare. Lo smarrimento di quando ci si trova senza più approdi è pura disperazione, aggirarsi nel mondo senza una propria identità sconvolge, ma è preferibile a una vita di rassicurazioni ovattate dentro a una Casa di bambola. Per molte, non avvezze alla sfida o al rischio, restarsene in un angolo sicuro appare come l’unica scelta possibile. Molte risponderebbero di non essere pronte per una parte da protagonista.

Come ci si può aspettare il pieno e paritario svolgimento delle funzioni lavorative, a tutti i livelli, quando solo poche donne conoscono il mondo? Nelle scuole ho incontrato insegnati di inglese che non avevano mai viaggiato fuori dall’Italia, nemmeno in Inghilterra.

Una donna istruita, colta, che accumula esperienza è oggi, ancora, una donna che intimidisce l’uomo (padre, fratello o marito), invece di arricchirlo. E anziché fondere i propri singoli valori, pur mantenendosi individui a sé stanti, ci si accanisce contrapponendo le forze. La coppia deve unirsi nella sua diversità e non nell’assorbimento di un elemento sull’altro.

Guardo le mie figlie crescere e farò ciò che è in mio potere perché non lascino la vita scorrere davanti ai loro occhi o che venga vissuta da qualcun altro al loro posto. Dovranno essere loro stesse guardiane del proprio destino.

E nel frattempo, io tifo per Reese Witherspoon (e soprattutto Laura Dern nella parte di sua madre) aspettando la notte degli Oscar.

P.s: Ma restando in tema di rivincite e rinascite, tifo anche per Michael Keaton, protagonista commuovente ed esilarante di Birdman.

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