Cinema

Festival di Berlino 2015, l’invocazione della libertà di Herzog e Panahi

Dopo la delusione del pessimo film di apertura, Nobody Wants the Night, due sono le punte di diamante in concorso: l'autore tedesco con Queen of the Desert e l’iraniano Panahi, volontario autista di un Taxi da cui osserva il suo amato/odiato Paese

di Anna Maria Pasetti

Nicole, regina di Berlino. Dopo la delusione del pessimo film di apertura (Nobody Wants the Night) della catalana Isabel Coixet con una sprecata Juliette Binoche, serviva la Kidman diretta dal maestro Werner Herzog, ad offrire alla Berlinale lo spirito di un’eroina autentica, protagonista a tutto tondo di un’epica romantica nel cuore del deserto.

La seconda giornata del 65° Festival di Berlino non bada al risparmio d’autori maiuscoli. Due infatti sono le punte di diamante in concorso: da una parte, appunto, il tedesco Herzog con Queen of the Desert, dall’altra l’iraniano Jafar Panahi, volontario autista di un Taxi da cui osserva il suo amato/odiato Paese che lo (trat)tiene tuttora “prigioniero” nel fisico ma non nelle idee.

Per quanto distanti anni luce in estetica e poetica, i due film si accumunano nell’ambientazione mediorientale e nell’invocazione della libertà, nel più profondo dei sensi possibili. Un afflato assai presente nelle filmografie di entrambi i registi e che l’età e l’esperienza del primo (72 anni) e la condizione politica del secondo stanno rafforzando di opera in opera. Per il leggendario autore/camminatore scalzo nonché uomo-Grizzly si è trattato di una sorta di esordio a doppio livello: “È il mio primo film con una protagonista donna e il primo centrato sul sentimento dell’amore” spiega Herzog circondato dal riconoscimento della Kidman e di James Franco (il protagonista maschile) per averli condotti in un’avventura senza precedenti nel deserto. Queen of the Desert, da lui anche sceneggiato, si ispira alla biografia di Gertrude Bell (1868-1926), nobildonna e intellettuale inglese letteralmente innamoratasi del mondo arabo, al punto da scegliere la propria sepoltura nella oggi martoriata Bagdad. Per questa “donna speciale di cui ho divorato i diari” serviva un’interprete all’altezza, e quindi nessuno meglio di Nicole, a detta del regista. 

“Un’eroina straordinaria, appassionata e passionale. Ringrazio Werner perché ci ha permesso di calcare le vere location d’ambientazione, stare nel deserto con lui è un privilegio unico”. Queen of the Desert è condotto da Herzog come una grande fiaba in costume, dal registro classico e dalla fotografia mozzafiato in scenari autentici, vibrante della stesa passione che il grande Werner prova per gli spazi aperti, la scoperta, la Bellezza, il desiderio di libertà e delle origini di un’identità in costante evoluzione. Certo non è all’altezza delle sue opere documentaristiche o dei suoi più lontani film di finzione, ma continua ad incarnare quello spirito “herzoghiano”.

Quanto alla Bell, va ricordato che tuttora è menzionata dalle tribù beduine come l’unica persona ad aver perfettamente compreso il loro spirito, la loro cultura, la loro profonda dignità. Per Herzog, da sempre artista/vate dell’autodeterminazione dei popoli, la situazione attuale del Medioriente ha una sola possibile soluzione: “Cancellare i confini, fare un grande paese arabo ma non come vuole l’Isis, come vuole la sua cultura originaria che nel film si tenta di mostrare attraverso l’esperienza di Gertrude Bell”.

Probabilmente il film del collega piacerebbe anche a Jafar Panahi, ovviamente assente a Berlino ma dal festival amato e da sempre sostenuto nel suo personale dramma, che lo costringe a non sconfinare dall’Iran e soprattutto a non scrivere né girare film prodotti nella maniera tradizionale per 20 anni. Se dunque i suoi ultimi film dai titoli emblematici This is not a film (2012) e Closed Curtain (2013 – premiato a Berlino) furono girati in casa propria, in questo caso l’ambientazione – e l’unico punto di vista della macchina da presa – è l’interno di un taxi. Panahi se ne improvvisa autista per incontrare sconosciuti o vecchie conoscenza, sempre attento ad evitare la retorica per denunciare la tragedia umana e professionale in cui versa la propria esistenza e quella di numerosi artisti iraniani. Straordinario è che seppur “chiuso e imprigionato”, il respiro e lo sguardo di Panahi in Taxi riesce ad esprimere quella libertà che chi l’ha conquistata non riesce ad apprezzare. Ovazioni a fine proiezione.

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