Un populu diventa poviru e servu quannu ci arrubbanu a lingua”. Il monito del poeta mi veniva in mente ogni volta che ascoltavo le canzoni di Mimmo Martino, ed oggi che Martino è morto quel monito diventa ancora più urgente e più importante.

Penso che non tutti i lettori de il Fatto Quotidiano sappiano di chi sto parlando. In questo caso, sappiate che per una volta vi sto dando un buon consiglio di ascolto. Mimmo Martino è stato (è) una figura unica di artista, intellettuale e rivoluzionario del nostro Sud. Non starò a raccontare i suoi meriti, perché c’è stato chi l’ha fatto in modo più autorevole di me e, se ne volete sapere di più, le fonti in rete non mancano.

La prima cosa che mi colpì di lui fu un gesto, in realtà molto naturale, che fece sul palco. Era con i Mattanza, il suo progetto musicale più noto, e cantava “Un Servu e un Cristu”, bellissimo e antico inno alla ribellione. Giunto al momento del brano in cui Cristo parla della sua Croce, Mimmo solleva la sua stampella di disabile, e la brandisce come un simbolo, come un’arma, verso il pubblico. La sua croce personale era diventata il suo messaggio di lotta. La gente fu colpita come da un pugno in faccia, gli applausi alla fine sembrava che non si sarebbero più fermati. Io ero incantato dalla potenza e dalla semplicità del messaggio che mi era arrivato. Volevo ascoltare tutto quello che aveva da dire.

I primi contatti tra noi giovani rapper e questa severa figura paterna non furono decisamente rose e fiori. Ci riconosceva l’immediatezza della comunicazione e la voglia di lanciare un messaggio, ma ci criticava la superficialità dell’approccio e la vanità. Sostanzialmente ci contestava di riempirci la bocca di parole come “radici” e “cultura” mentre non ne sapevamo praticamente niente. Anni dopo, non posso che riconoscere che aveva ragione.

Abbandonammo quindi l’idea presuntuosa di condividere il palco con il vecchio maestro (vecchio rispetto a noi che eravamo ragazzini…), ma continuavamo ad andare ai suoi concerti e ad ascoltarne i dischi. Rubavamo dei pezzi delle sue canzoni e li campionavamo per comporre le nostre basi. Continuavamo a studiare.

L’estate scorsa ho rivisto Mimmo Martino dopo molto tempo, al Centro Sociale Cartella di Reggio Calabria; era una serata benefit per ricostruire l’unico spazio sociale autogestito della città che era stato bruciato dai soliti vigliacchi fasciomafiosi. Gli raccontai che avevo fatto un disco rap/blues con una band di musicisti, glielo volevo fare sentire, ma non avevo il cd con me. Gli mandai quindi un link da cui scaricarlo, e la cosa finì lì.

La sorpresa arrivò qualche giorno dopo, quando mi scrisse che gli era piaciuto molto, e che ne voleva assolutamente la copia fisica. Ci incontrammo nuovamente al parco del Cartella, e passammo la serata a parlare. Perdonatemi il luogo comune ma, quando si parlava di musica, Mimmo diventava un gigante. Torreggiava su di me che pure gli passavo 20 centimetri e almeno altrettanti chili. Sembrava conoscere i miei testi meglio di me ed il sound meglio dei miei musicisti.

In sintesi, mi disse che era arrivato il momento di fare una canzone insieme io e lui, e potete immaginare la mia soddisfazione. Tempo di finire i rispettivi tour e progetti, e sicuramente entro un anno saremmo entrati in studio insieme. Ma l’estate del 2015 arriverà, e quella canzone insieme non la faremo.

Mentre stavamo per salutarci, arrivò un amico comune, che ci sorprese appunto mentre parlavamo dei rispettivi concerti e impegni, che erano molto densi per entrambi. Sorrise e ci disse “In bocca al lupo di cuore!”

Mimmo Martino, mentre si alzava, brandì di nuovo la stampella, la puntò, sorridendo anche lui, verso l’amico, e esclamò, quasi in un urlo: “E viva il lupo!”

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