anelli-fumo-gastaldiConfesso di provare una certa insofferenza per i romanzi che vengono definiti “generazionali”, ossia quei romanzi che tentano di restituire in un colpo solo i tratti e le manie di una categoria di persone unite da un comune dato statistico: l’età anagrafica. Sciltian Gastaldi ha da poco pubblicato un romanzo, Anelli di fumo (edito da Transeuropa), che inizia così: “La tua generazione è quella nata con due canali Rai. Quella cresciuta con i primi cartoni giapponesi trasmessi in Italia: Capitan Harlock, Goldrake, Heidi, Lady Oscar, Daitarn III e Candy Candy. Quella dei primi telefilm americani […]”.

Appena ho iniziato a leggerlo mi sono detto: “Ecco un romanzo generazionale”. Di più, mi sono detto: “Ecco un romanzo dichiaratamente generazionale”. E subito ho visto innalzarsi di fronte a me una parete pregiudiziale all’apparenza insormontabile. Il romanzo di Gastaldi, in effetti, è innegabilmente il ritratto di una generazione, una polifonia di voci che racconta le vicende di un gruppo di quasi quarantenni alle prese con una società in crisi di valori (un’altra idiosincrasia che ho è per l’espressione “crisi di valori”) e con strategie per colloqui di lavoro, aperitivi, amori surrogati, tentazioni da cervelli in fuga. Insomma, tutto il corredo che riproduce il giovane emerito attuale che della gioventù conserva il grado e le prerogative pur non possedendone più i requisiti materiali. Eppure, nella scrittura di Gastaldi c’è qualcosa che di solito non c’è nei canonici romanzi generazionali, e lo spunto per definire questa cosa me lo ha dato lui stesso a pagina 63 del libro, quando scrive: “Mi rammento di come i disegnatori della serie Jenny la Tennista accennavano i visi dei personaggi di sfondo: una serie di maschere tutte uguali, fatte di due tratti al massimo”.

Ecco, il tradizionale romanzo generazionale ha la caratteristica di abbozzare una serie di maschere fatte di due tratti al massimo; il romanzo generazionale atipico – e, aggiungerei, ben scritto – fa esattamente l’opposto: definisce i particolari dello sfondo fino a rischiararli di luce cristallina; in buona sostanza, evita i cliché.

È ciò che succede in Anelli di fumo. I personaggi, dislocati fra Roma e Milano (nel corso della storia si ritroveranno per una festa in un appartamento di Ostia, una città che d’inverno diventa “una casa di riposo a cielo aperto”), sono anime che più vive non si può. La loro caratterizzazione è studiata nei minimi dettagli, dai più minuti capricci al linguaggio diversificato dagli accenti regionali (qui la restituzione letteraria è davvero notevole) e dallo slang che varia da città a città. Il romanzo procede con ritmo da commedia, di quelle però che serbano un retrogusto amaro, una complessa mescolanza di ironia e inquietudine alla François Ozon. E il compimento a cui giunge ha il merito di riconciliare con il genere i diffidenti come me (ammesso che l’aggettivo generazionale definisca un genere).

In conclusione, la storia mi ha fatto pensare a una frase di Brancati: “Un uomo può avere due volte vent’anni, senz’averne quaranta”. Il che, credo, vale al massimo grado per quelli nati con due canali Rai.

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